Corrado Alvaro e il fascismo
30 Giugno 2011L’ultima intervista con Don Massimo Alvaro (16 aprile 1914 – 12 giugno 2011), fratello dello scrittore Corrado Alvaro, pubblicata dal “Il Quotidiano della Calabria” del 14 giugno 2011 (“Corrado Alvaro, mio fratello. Tutte le sue sfaccettature”, pagg. 54-55)
FRANCESCO D. CARIDI
Era il piccolo di casa Alvaro, l’ultimo di quattro maschi e due femmine nati nell’impervio paesino di San Luca: lo scrittore Corrado, l’avvocato Guglielmo (annegato nel Tevere, forse suicida per amore), il medico Beniamino, Maria, da tempo scomparsi, Laura, e lui, don Massimo, il prete novantasettenne che aveva officiato l’ultima messa una settimana prima della caduta fatale (operato al femore, è morto all’ospedale di Locri nelle prime ore del 12 giugno). Dell’antico nucleo famigliare rimane la sorella Laura, centenaria (abita a Roma, è zia del cantastorie Otello Profazio), i cui gustosi chiacchiericci ispirarono alcuni racconti del celebre fratello.
Citava a memoria i salmi, don Massimo, ma anche alcuni brani di Corrado Alvaro, annoverato da Walter Pedullà fra «i maggiori novellieri» oggi purtroppo dimenticati del Novecento (Gente d’Aspromonte, Il ritratto di Melusina, L’uomo è forte), uno scrittore apprezzato anche da Pirandello, da Missiroli e da Mussolini, impronta inconfondibile del giornalismo nazionale e della critica teatrale della prima metà del Novecento.
Don Massimo è stato il “tabernacolo” di Corrado (conservò a lungo il suo archivio, adesso diviso tra la Biblioteca comunale di Reggio Calabria e la vedova del figlio dello scrittore a Roma), l’ispiratore della Fondazione omonima situata quasi per simbolo nella modesta ma dignitosa casa avita di San Luca.
Geno Pampaloni annotò: «Don Massimo parla con le parole del fratello», ed io ho avuto l’ardire di ricordarglielo, nel corso di una lunga intervista alla presenza della pronipote Maria Saccà (suo padre era figlio di Maria Alvaro) autrice di un saggio su inediti teatrali alvariani, quando don Massimo mi ripeteva frasi di Quasi una vita, il diario di Corrado, per avvalorare i suoi ricordi. «Ma io parlo con testi alla mano, citando documenti, perché quod gratis asseritur, gratis negatur!», mi ha risposto piccato.
Diventava sordo ad ogni domanda su antichi screzi tra fratelli di cui rimane traccia in altri carteggi, continuava a proteggere e ad onorare la memoria di Corrado, minimizzava sulle traversie dello scrittore durante il Fascismo, faceva l’elogio del comportamento dei letterati che aveva conosciuto da vicino. Ci siamo dati del voi, all’uso rispettoso di Pirandello e di Sciascia, come si conviene a dei buoni meridionali.
Don Massimo, tra voi e Corrado correvano vent’anni di differenza. Corrado era già affermato giornalista e scrittore quando foste mandato a Roma a studiare…
«Ero già seminarista. Nel 1934 mi chiamarono all’Almo Collegio Capranica il cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani [Vicario di Roma dal 1931 al 1951 – ndr] e il Vicegerente di Roma, mons. Luigi Traglia, che stimava Corrado. Tra i miei più cari colleghi del corso di teologia ricordo Luigi Novarese [futuro fondatore di centri assistenziali, proclamato Servo di Dio – ndr], Guido Del Mestri [futuro cardinale e nunzio apostolico in Germania, – ndr], Enrico Bartoletti, mio compagno di banco che diventerà vescovo di Lucca e segretario generale della CEI, ed Antonio Iannucci, che sarà arcivescovo di Pescara [tutti scomparsi: Iannucci è morto nel 2008, Bartoletti nel 1976, Del Mestri nel 1993, Novarese nel 1984 – ndr]. Mi rifiutai poi di fare carriera curiale: il rettore Cesare Federici nel 1948 voleva che io andassi in Vaticano, ma preferii tornare in Calabria a fare il parroco e a stare vicino a mia madre, rimasta vedova».
I vostri fratelli Corrado, Guglielmo e Beniamino studiarono al collegio di Mandragone, a Frascati, dai Gesuiti. Corrado era religioso?
«Certo, era religioso. Pregava per i morti con le preghiere dei vivi, il Padre Nostro, l’Ave Maria, per non rinnovare la sepoltura, diceva. Faceva la carità di nascosto, dava la legna da ardere a chi ne aveva bisogno. Monsignor Montini lo stimava, aveva chiesto più volte di incontrarlo».
1944, Alvaro scrive nel suo diario: «La sera, pregando per i miei, mi si affacciamo anche i miei morti. I poveri morti hanno preghiere speciali, tristi e che ribadiscono la loro sepoltura. Sento che sono contenti quando io dico per essi le preghiere stesse dei vivi e per i vivi». Lo scrittore, su richiesta di don Giuseppe De Luca, partecipò con Massimo Bontempelli, Nicola Lisi e Diego Valeri ad una traduzione dal greco degli Evangeli, pubblicata in mille esemplari nel 1947 da Neri Pozza e riedita nel 1950 dallo Studium Cattolico Veneziano con qualche revisione ecclesiastica e quattro illustrazioni di Felice Casorati. Don Massimo conserva una copia del vecchio libro con la dedica di Corrado a sua madre: «Alla cara mamma, il Vangelo di Marco tradotto dal suo figliolo ricordando le sue preghiere della sera. Roma, 8 febb. 1950».
Don Massimo, negli anni Trenta vostro fratello era già molto conosciuto, che ricordo avete di quei tempi?
«Come ho detto, studiavo teologia al Capranica. Un giorno, nel 1939, decisi di recarmi da Ettore Muti, segretario del PNF, a raccomandare un giovane sacerdote per l’insegnamento di catechesi in una scuola della provincia romana. Riuscii ad incontrarlo nonostante le resistenze di un usciere. Dovetti insistere: dite a Sua Eccellenza che voglio parlargli, sono Massimo Alvaro. Evidentemente incuriosito dal mio cognome, Muti mi ricevette, mi squadrò bene e fece una telefonata: “Corrado, guarda che qui c’è tuo fratello, ti somiglia molto, è preciso a te”. Era simpaticissimo Ettore Muti…».
Si davano del tu?
«Al telefono, in mia presenza, si diedero del tu».
Ma Corrado era antifascista, nel 1925 l’avevano picchiato, le aveva prese al Teatro Valle per aver difeso Adriano Tilgher, nel dopoguerra scriverà parole spiacevoli su Mussolini.
«Era il suo carattere, aveva sentimenti antifascisti, ma non a mano armata. Lui stesso ha scritto: “Non sono mai stato antifascista professionista”. Dopo l’aggressione mio padre Antonio, maestro elementare, aveva espresso a Corrado l’intenzione di mandare dei compaesani… ad aggredire gli aggressori. C’erano stati brutti episodi, alcuni fascisti di basso livello odiavano Corrado…, si sa, gli imi certe volte comandano ai potenti. Ma Bottai e Mussolini lo apprezzavano, cinque anni dopo quell’aggressione ebbe il Premio letterario La Stampa. Io parlo di fatti noti».
Bottai, il ministro dell’Educazione Nazionale, era amico di Corrado, scrisse che i suoi libri gli piacevano, lo scelse come collaboratore di “Primato”, la sua rivista culturale. Nel suo diario pubblicato nel dopoguerra però contestò ad Alvaro, che in alcuni articoli aveva sprezzato i fascisti, di aver brigato per avere la nomina di Accademico.
«Un giorno mi trovavo a casa di Corrado a Piazza di Spagna e fui testimone di un suo incontro riservato con Bottai. Nessuno fu presente al loro colloquio, nemmeno la moglie Laura Babini che stava in un’altra stanza con me. Domandai poi a Corrado il motivo della visita. Lui mi rispose evasivamente: un incarico universitario… Non volle dirmi altro. Corrado desiderava, sì, essere nominato all’Accademia, ma senza prendere la tessera fascista».
Si sa che Mussolini lesse “Gente in Aspromonte”…
«Certo, e ne consigliò la lettura anche all’ambasciatore del Brasile, come risulta dal diario di Corrado. Mussolini proponeva i suoi libri per le traduzioni all’estero. Da una lettera di Margherita Sarfatti si apprende che lo giudicava “forte, molto forte”. Nonostante questo, Corrado evitò di incontrare Mussolini, che invece avrebbe avuto piacere di conoscerlo. C’è una lettera in cui mio padre scrive a Corrado: Mussolini si è dimostrato benevolo e tuo amico in certe circostanze. Lettera mai resa pubblica, che conservo tra le carte personali. Le lettere che mio padre mandava a Corrado le tengo io, sono andate invece perdute quelle di Corrado al genitore».
Quindi gli alti gerarchi lo rispettavano?
«Vi racconto un fatto significativo. Un giorno, mentre Corrado camminava per Via Nazionale, passò Ciano in macchina, lo vide, si fermò e scese per salutarlo».
E i letterati del suo tempo?
«So che D’Annunzio intervenne in suo favore, come Pirandello e Bontempelli, ch’erano suoi amici. Anche lo scienziato Guglielmo Marconi. E poi, Silvio D’Amico, Barzini, Bragaglia, Perri, Rèpaci, Moravia, avevano grande considerazione e affetto per lui, come molti altri».
Corrado mostrava a sua volta devozione per Pirandello, dopo la sua morte scrisse una magnifica prefazione alle sue novelle, in cui raccontò: «Un giorno, dopo che egli ebbe ottenuto il Premio Nobel, io cercai di suscitargli intorno una manifestazione di simpatia degli scrittori, ci fu un ricevimento in casa sua, c’erano tutti ma piuttosto come a festeggiare un fortunato». Il 9 novembre del 1934 Pirandello aveva ricevuto per telegramma la comunicazione dell’assegnazione del Nobel per la letteratura. Che ricordi avete di quel periodo?
«Ricordo bene che una serata di novembre del 1934 a casa di Pirandello, sulla Nomentana [in Via Alessandro Torlonia, oggi via Antonio Bosio – ndr], presente il figlio Stefano, partecipai con mio padre e Corrado ad un incontro in cui c’erano anche Bontempelli e Paola Borboni. Ho sentito Pirandello che diceva a Bontempelli: “Convinci Corrado a prendere la tessera fascista, così lo propongo all’Accademia d’Italia”. Ma non c’era verso… Quella sera parlarono di teatro, fu una discussione equilibrata. Paola Borboni era una bella donna, Bontempelli parlava più degli altri. Pirandello disse a mio padre: “Lei ha un grande figlio”, poi al congedo lo aiutò a indossare il cappotto. Un bel gesto. Conservo una lettera in cui mio padre rimprovera Corrado di non aver seguito il consiglio di Bontempelli e di Pirandello. Un giorno, quando si parlò di mio fratello come di un possibile candidato al Nobel, fui io a scrivergli: “Prendi la tessera, non fare come con l’Accademia d’Italia, così il Governo ti sosterrà presso l’Accademia di Svezia».
Alla caduta del Fascismo, nel 1943, Corrado si rifugiò a Chieti sotto il falso nome di Guido Giorgi, ospite di una famiglia del luogo.
“Ma tutti in città sapevano chi fosse, tranne i tedeschi che ignari mangiavano con lui in trattoria. Corrado sapeva parlare il tedesco. Il cognome era falso, ma il nome era uno dei suoi: infatti all’anagrafe di San Luca era stato segnato con i nomi di Corrado Giuseppe Guido Salvatore Giovanni Battista».
Che rapporto aveva Corrado con altri scrittori?
«Moravia, Marino Moretti, Leonida Rèpaci erano suoi amici, lo rispettavano. Quando dopo la morte di Corrado ci ritrovammo nella sua villa di Vallerano, nel viterbese, alla posa di un cippo commemorativo, Albertina Rèpaci, la moglie di Leonida, mi disse di fronte a tutti: “Sapete, don Massimo, mio marito non è all’altezza di suo fratello”. Io rimasi esterrefatto, ma Leonida mi tolse d’imbarazzo dicendomi: “È vero, è vero”. Rèpaci era un uomo di grande bontà».
Che giudizio date dello scrittore Alvaro?
«Aveva un genere letterario tutto suo. Devo dire che seguì in particolare i consigli di Pancrazi e di Ojetti, che lo avevano fatto collaborare al “Pègaso”, mensile di arte e letteratura. Ma pochi sanno che Corrado si interessò anche di scienza e tecnica, di scoperte e di invenzioni. Parlava e scriveva di scienza in maniera così competente, da renderla poesia. Per il resto, riteneva il Cavalcanti autore dei più bei sonetti della letteratura italiana, e leggeva volentieri Oscar Wilde e Hermann Hesse».
Alvaro è uno scrittore ancora attuale?
« È una forza che resiste. Mentre nell’opera di Manzoni o son tutte virtù o son tutti vizi, in quella di Alvaro ci sono tutte le sfaccettature… E poi, i suoi scritti politici sono attuali, nel dopoguerra parlava già della crisi delle sinistre. Andrebbero ristampati i suoi articoli pubblicati sul “Popolo di Roma” [il quotidiano controllato da Ciano – ndr], i suoi articoli sul Risorgimento, la sua prefazione ai Miserabili di Victor Hugo…».
Somiglia al ritratto che ne fece Guttuso?
[Fa un’espressione di noncuranza- ndr] «Quasi una caricatura».
Don Massimo, come giudicate il mondo degli scrittori di oggi?
«Chi sono? “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” diceva San Paolo nell’Epistola ai Romani. Oggi invece i letterati gareggiano nel male, non nel bene. C’è gelosia, non c’è sostanza. Silvio D’Amico, Perri, Rèpaci, Pirandello, Barzini, Bontempelli, Cecchi, Moravia, dicevano che Alvaro era un grande, nessuno di loro diceva male degli altri, si rispettavano. Grande lezione, la loro. Oggi molti gareggiano nel calunniarsi».
Un commento presente
SuperCaridi
Scritto da gabriele mastellarini il 2 Lug 2011