Chiudono i giornali: internet e informazione, un binomio oramai inscindibile
25 Marzo 2009di Antonio Rossano da socialblog.yurait.com
Leggevo l’ articolo di Bernardo Parrella su Apogeonline “Paure e speranze nel futuro delle news”, che sviluppa un analisi completa ed esaustiva sulla situazione di grave crisi e di profondo mutamento che il settore specifico dei media, con particolare riferimento alla carta stampata, sta attraversando, negli Stati Uniti, e quindi, nel nostro prossimo futuro.
E tra i suoi riferimenti, l’ ultima elugubrazione di Clay Shirky sul suo sito, dal titolo “Newspapers and Thinking the Unthinkable”.
E Shirky, come suo solito, non tralascia di inserire nel suo percorso storico-analitico la sua lucida e geniale visione delle cose. Eccone alcuni brani.
Nel 1993 il gruppo editoriale Knight-Ridder si accorse che la rubrica del giornalista Dave Barry, pubblicata sul Miami Herald e su molti altri giornali, veniva copiata e distribuita senza rispettare il copyright.
Decise quindi di fare un’indagine e scoprì diverse cose: una versione pirata della rubrica era riprodotta su Usenet, duemila iscritti di una mailing list la leggevano e un adolescente del Midwest si occupava personalmente di copiarla perché adorava gli articoli di Barry, e voleva che tutti potessero leggerli.
Una delle persone con cui gironzolavo sulla rete, Gordy Thompson, che all’epoca curava i servizi online del New York Times, disse: “Se un ragazzino di quattordici anni riesce a mandare all’aria il tuo business nel suo tempo libero, non perché ti odia ma perché ti adora, allora hai un problema”. In questi giorni ho ripensato spesso a quella conversazione.
Il problema dei quotidiani non è che non avessero previsto l’arrivo di internet. Non solo lo avevano previsto con grande anticipo ma avevano anche capito che avevano bisogno di un piano per affrontarlo. Negli anni novanta ne escogitarono più d’uno: entrare in società con aziende come America Online, spiegare a tutti la legge sul diritto d’autore, proporre nuovi modelli (tra cui i micropagamenti) o vivere esclusivamente dei ricavi pubblicitari. E poi si poteva sempre citare in giudizio chi violava il copyright per dare l’esempio a tutti gli altri.
Ma c’era una sola eventualità che tutti ritenevano inverosimile, e quindi non veniva mai discussa. Accettare e proporre le condivisioni (violazioni del copyright) direttamente, creando un modello di questo.
Le regole che vanno contro i desideri della gente non vengono rispettate. Le vecchie abitudini dei pubblicitari e dei lettori non funzionano online. E, come diceva Thompson, citare in giudizio qualcuno perché condivide le cose che gli piacciono di più lo farà sicuramente incazzare.
Le rivoluzioni producono un curioso cambiamento della percezione. In tempi normali le persone che non fanno altro che descrivere il mondo intorno a loro sono viste come dei realisti, mentre chi immagina scenari alternativi e fantastici sono giudicati dei rivoluzionari. Ma gli ultimi vent’anni non sono stati tempi normali.
Nei giornali, i realisti erano quelli che semplicemente guardavano fuori dalla finestra e si rendevano conto che il mondo si avvicinava sempre di più all’impensabile. Queste persone erano considerate completamente folli. Allo stesso tempo, le persone che immaginavano un futuro di “walled gardens” e la entusiastica adozione dei micropagamenti, visione non supportata dalla realtà, erano considerati non dei ciarlatani ma saggi.
Quando la realtà è etichettata come inimmaginabile, nelle imprese si crea un senso di malessere. Chi comanda comincia a basarsi sulla fede, mentre quelli che hanno il coraggio di dire che qualcosa sta cambiando vengono rinchiusi nel Reparto innovazione, dove possono essere completamente ignorati.
Accantonare i realisti per seguire gli affabulatori produce effetti che variano a seconda del settore e del momento. Una delle conseguenze nei quotidiani è che molti dei loro difensori più appassionati non riescono, ancora oggi, a elaborare un piano per quel mondo che conoscevano e che si sta dissolvendo sotto i loro occhi.
La cosa curiosa di quei piani sviluppati negli anni novanta è che, in sostanza, erano tutti uguali: “Ecco come terremo in piedi i vecchi modelli di organizzazione in un mondo dove fare copie perfette non costa nulla!”. I dettagli erano diversi, ma tutti gli scenari (tranne quello inimmaginabile) erano fondati sul fatto che la struttura del giornale, un ottimo strumento per la diffusione di notizie e opinioni, fosse fondamentalmente valida e avesse solo bisogno di un lifting digitale. Di conseguenza, le discussioni sfociavano in un entusiastico arrampicarsi sugli specchi , perseguito dalle risposte degli scettici.
“Se il Wall Street Journal è a pagamento, facciamolo anche noi!” (le notizie finanziarie sono una delle poche informazioni che i lettori non vogliono condividere).
“I micropagamenti funzionano per iTunes, facciamoli anche noi!” (i micropagamenti funzionano solo quando non ci sono alternative commerciali valide).
“Il New York Times dovrebbe far pagare i suoi contenuti!” (ci ha già provato).
E così all’infinito, mentre chi dovrebbe salvare i giornali si chiede: “Se il vecchio modello si è rotto, cosa lo sostituirà?”. La risposta è: niente. Niente potrà sostituirlo. Non esiste un modello generale per i quotidiani che possa sostituire quello appena distrutto da internet. Ora che la vecchia economia è andata in frantumi, le forme di organizzazione che funzionavano per la produzione industriale dovranno essere sostituite con sistemi ottimizzati per i dati digitali. Non ha più senso parlare di un’industria dell’editoria, perché il problema che l’editoria risolveva – la difficoltà e il costo di distribuire informazioni – non è più un problema.
………….
Internet compie quarant’anni. L’ utilizzo da parte del pubblico è iniziato circa venti anni fa. L’ utilizzo del web come parte della nostra vita quotidiana da una decina d’anni. Siamo in questo preciso punto. Nemmeno i rivoluzionari possono prevedere cosa succederà.
Immaginate di essere nel 1996 e di chiedere a qualche esperto della rete di illustrarvi le potenzialità di Craigslist, che è nato da appena un anno.
Probabilmente vi risponderà che le mailing list sono strumenti molto potenti, oppure che gli effetti sociali si stanno intrecciando con le reti digitali, e via dicendo. Ma nessuno poteva immaginare quello che è successo: Craigslist è diventato una componente cruciale della rete, si è diffuso in centinaia di città ed è entrato a far parte delle cose che ora riteniamo possibili.
Gli esperimenti si rivelano punti di svolta cruciali solo dopo un po’ di tempo. Nel graduale passaggio di Craigslist da “interessante, ma secondario” a “essenziale e determinante” c’è una possibile risposta alla domanda: “Se il vecchio modello si è rotto, cosa lo sostituirà?”.
La risposta è: niente lo sostituirà, ma tutto potrebbe sostituirlo. È il momento di sperimentare.
La società non ha bisogno dei giornali, ha bisogno di giornalismo. Per un secolo l’imperativo di rafforzare il giornalismo e quello di rafforzare i giornali sono stati così collegati da diventare indistinguibili. È stato un caso felice, ma oggi dobbiamo trovare altri modi di rafforzare il giornalismo.
Se spostiamo l’attenzione da “salvare i quotidiani” a “salvare la società”, l’imperativo di “salvaguardare le istituzioni esistenti” si trasforma in quello di “fare qualunque cosa funzioni”. E quello che oggi funziona è diverso da quello che funzionava prima.
Nei prossimi decenni il giornalismo sarà fatto di una serie di casi particolari. Molti di questi modelli saranno creati da amatori, ricercatori e scrittori. Altri dipenderanno da sponsorizzazioni, sovvenzioni e donazioni. Molti altri esisteranno grazie a un gruppo di quattordicenni pieni di energia che diffonderanno le notizie.
Molti di questi modelli falliranno. Non sarà un solo esperimento a sostituire quello che stiamo perdendo con la fine del giornali, ma con il tempo l’insieme degli esperimenti che funzionano potrebbe darci il giornalismo di cui abbiamo bisogno.