BONUS, INCENTIVI ED ETICA BANCARIA
16 Ottobre 2009di Gianluigi De Marchi per dituttounblog.com
La drammatica crisi finanziaria del 2007 si è presto trasformata (come era purtroppo prevedibile) in una pesante crisi economica che colpisce tutti noi. L’economia ha pagato cara la follia finanziaria del primo decennio del nuovo millennio: molte aziende hanno chiuso, molte hanno problemi a mantenere i posti di lavoro, il credito si è fatto molto scarso. Alla base del cataclisma c’è, spiace dirlo, il comportamento spregiudicato di molti istituti di credito che si sono lanciati in speculazioni planetarie senza tenere in conto le attese della clientela.
La stampa di tutto il mondo ha puntato il dito sul fenomeno dei budget aziendali elaborati dal sistema bancario dalla fine degli anni 90, quando è esplosa la “deregulation” e, in pratica, ognuno si sentito autorizzato a “farsi gli affari suoi”. Che una banca abbia diritto di perseguire l’obiettivo del profitto è logico e legittimo: si tratta di un’entità economica, spesso quotata in borsa, quindi non può certo operare in un’ottica di “beneficenza”, senza tener conto di parametri operativi che salvaguardino gli azionisti. Ma che una banca punti spregiudicatamente al profitto in sé e per sé non è certo eticamente coretto né in linea con la sua funzione.
Mi permetto di ricordare che la banca è (vedi i dizionari della lingua italiana…) un “istituto che raccoglie denaro dai risparmiatori e lo usa per finanziare aziende che necessitano di capitale per investimenti”. Qualcuno riconosce in questa semplice definizione gli attuali colossi internazionali del credito come Goldman Sachs, Citicorp, Merrill Lynch o i più piccoli “colossi” nazionali come Unicredit o Intesa San Paolo?
La risposta è unica: no.
Il sistema bancario ha cambiato pelle, ha adottato un modello di banca d’affari che non ha più nulla a che vedere con quello tradizionale.
Si raccoglie risparmio e si fa credito, certo. Ma il grosso dei profitti deriva da operazioni di ben altro genere: operazioni in titoli, collocamento di fondi comuni d’investimento, vendita di polizze assicurative, creazione di prodotti speculativi (i famigerati e mai abbastanza criticati “derivati”). In questi “prodotti” (per usare la terminologia corrente) si annidano le preziose commissioni (o per usare il linguaggio oggi di moda, le “fees”) che generano profitti enormi, generati (e qui sta un punto delicato in termini di eticità) da commissioni occulte. Commissioni che consentono di pagare faraonici “bonus” ai dirigenti.
E qui tocchiamo il punto dolente di quella che mi permetto di definire “etica professionale carente”. I super profitti sono generati da manager che “creano” il cosiddetto plusvalore aziendale attraverso operazioni sofisticate di “finanza artificiale”; e le banche riversano ai “creatori di plusvalore” premi ingenti (i famosi “bonus”) che in molti casi superano i già elevatissimi stipendi.
Insomma, non basta più uno stipendio mensile a sei cifre; ci vuole un premio di sette cifre per gratificare chi fa lievitare le quotazioni in borsa.
Purtroppo (e si è puntualmente avverato) le crescite violente si trasformano in tracolli; chi ha “creato” valore inevitabilmente lo distrugge non appena il fragile equilibrio sul quale si basa il “business” ha un rallentamento. Non sono discorsi populisti: sono affermazioni fatte da personaggi autorevoli come i capi di Stato del G20 che a Pittsburgh hanno lanciato un chiaro monito a chi alimenta il fuoco della speculazione traendo profitto dalla vendita dei fiammiferi e della benzina indispensabile ad accendere le fiamme…
Non si può che auspicare che il fenomeno sparisca, che le banche tornino a fare semplicemente le banche a sostegno del sistema produttivo e che i grandi manager si “accontentino” degli stipendi a sei cifre.