L’eterna lotta attorno alla bilancia della legge
28 Gennaio 2010di Francesco Ginanneschi per dituttounblog.com
L’ultima telenovela a sfondo senatoriale sulla giustizia è quella riguardante il cosiddetto “ processo breve “ ( a dire la verità è un appellativo alquanto improprio ). Si tratta del più recente capitolo ( per ora ) di una epica saga che, lungi dall’avere come protagonisti sfidanti Nibelunghi ed eroi semidivini, tiene il Paese con il fiato sospeso.
Il tema della riforma della giustizia e delle varie leggi di argomento giudiziario è uno di quelli la cui importanza viene alle volte misconosciuta o peggio strumentalizzata. Con il Paese sconvolto dalle mareggiate della crisi economica, si dice, non è interesse della gente che la politica pensi a processi e procure. Non credo che questa sia una visione corretta.
Il funzionamento di una buona democrazia dipende dalla efficienza e dalla scrupolosa preparazione di tutti i suoi organismi pubblici. Se i pilastri costituzionali di un ordinamento possono funzionare bene è perché hanno la fortuna di reggersi su norme opportune e lungimiranti. Se invece i sopramenzionati pilastri non funzionano bene è forse perché le norme non sono così buone. Per questa ragione è doveroso occuparsi anche di tali regole che, lungi dallo stabilire modelli di condotta individuale o dal disciplinare l’economia e la finanza, ci dicono come certe istituzioni devono lavorare ed in quale posizione possono stare.
La giustizia Italiana si compone di innumerevoli tribunali, di un esercito di magistrati ( ordinari, contabili, amministrativi, militari, costituzionali, ecc…), di un Consiglio Superiore ( CSM ), di una Corte dei conti, di un Consiglio di Stato e di una Corte Costituzionale.
I magistrati a loro volta , molto schematicamente, sono requirenti ( ossia i Pubblici Ministeri titolari dell’azione penale ) oppure giudicanti ( i veri e propri giudici, da non confondere con i PM che giudici non sono ).
Nel corso degli anni si è sviluppata un’idea estremamente innovativa e contestatissima : privare i PM dell’obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale e collocarli in una carriera distinta e separata rispetto a quella dei giudici ( i magistrati giudicanti ).
L’art.112 della Costituzione prevede che il PM abbia l’obbligo di esercitare l’azione penale. Pertanto privare i pubblici ministeri di questo dovere comporterebbe l’utilizzo di una legge costituzionale. L’obbligo di cui si parla è difficilmente realizzabile nella realtà : implica che il magistrato, appena ricevuta la “notitia criminis”, indiscriminatamente , per qualunque fatto di reato,si muova attraverso l’apertura di una inchiesta.
Astrattamente lodevole, il precetto è materialmente molto problematico da attuare. I pubblici ministeri, infatti, finiscono ugualmente con l’utilizzare una notevole discrezionalità in merito alle inchieste da aprire e da seguire.
Alcuni propongono che sia il Ministro della Giustizia a dare alle procure determinate priorità investigative, magari sulla base delle esigenze territoriali di ciascun distretto giudiziario.
Riguardo alla separazione delle carriere, bisogna dire che un accenno di riforma in questo senso lo si poteva rintracciare all’interno della riforma Castelli votata dal parlamento nella XIV legislatura (la legge conteneva anche il rafforzamento del ruolo del procuratore capo e l’istituzione di una Scuola Superiore della Magistratura ) ed in buona parte abrogata dalla successiva legge Mastella.
Il tema è particolarmente importante, in quanto una effettiva distinzione tra i due percorsi professionali potrebbe incentivare la disciplina dei magistrati e restituire alle parti del processo penale quell’equilibrio che troppo spesso è stato sacrificato in favore di uno straripante dinamismo della pubblica accusa ( leggi PM ).
Separare le carriere vuol dire in definitiva allontanare i punti di contatto tra gli accusatori e gli arbitri teoricamente imparziali, impedire che PM e giudici lavorino in una vicinanza inopportuna e contestabile.
Una separazione compiuta delle due carriere dovrebbe essere poi coronata dalla istituzione di un secondo Consiglio Superiore, a cui dovrebbero fare capo i soli requirenti.
In Italia i problemi legati alla giustizia hanno conosciuto e conoscono ancora una storia dolorosa,che con grande drammaticità non riesce a trovare uno sbocco utile e condiviso. Prove recenti sono state date dal processo breve ricordato in apertura e prima ancora dal quasi comico percorso istituzionale del Lodo Alfano, concepito come legge ordinaria e poi grottescamente smantellato dall’intervento della Consulta.
Il nostro Paese vive oggi accostato ad un fantasma oscuro e terribile, ossia quello della Prima Repubblica. Il suo crepuscolo inglorioso, saettato da scandali e coni d’ombra, viene incautamente riesumato dai molti che temono di scorgere lo strangolamento delle istituzioni giudiziarie da parte dei tentacoli della politica. La posizione personale del Presidente del Consiglio è un fattore ulteriore di tensione ed allontana indeterminatamente la possibilità di una intesa larga e condivisa su temi non solo giudiziari.
Ciò di cui le istituzioni impolverate e la società intera hanno bisogno sono le riforme. Farle alla maniera “bipartisan”, con chi è disponibile, in un contesto di realismo e di anti populismo, è un dovere irrinunciabile.
Fallire anche questa volta e cedere di fronte ai rimproveri di Antonio di Pietro e di qualche suo seguace giornalista potrebbe richiedere un prezzo altissimo.