Di Pietro, la storia vera – di Filippo Facci, editore Mondadori, da domani nelle librerie
12 Ottobre 2009Da domani in libreria il nuovo libro di Filippo Facci su Antonio Di Pietro, 528 pagine di biografia assolutamente non autorizzata per 21 euro. Ecco alcuni brani in anteprima, pubblicati dall’autore su facebook. Buona lettura (sf)
dal capitolo XIII
Il sogno della vedova
Il particolare è il caso dell’eredità Borletti, altro riflesso accecante di chi è davvero Antonio Di Pietro. La storia è stata raccontata dai giornali, ma molto confusamente.
Il 22 maggio 1995 la contessa Maria Virginia Borletti, detta Malvina, decise di donare il 20 per cento della sua cospicua eredità a Romano Prodi e ad Antonio Di Pietro. Il padre, Mario Borletti, era stato un mitico produttore di macchine per cucire e aveva accumulato capitali da favola. Perché proprio a loro? Perché erano gli unici – pensava l’anziana contessa dal suo osservatorio di Londra, dove viveva con figli e fratelli – che potevano risollevare le sorti del Paese:
«Riflettono la miglior parte degli italiani. Di Pietro, fra i magistrati di cui ho stima, è l’unico che ha lasciato la toga e quindi è diventato accessibile. Mi sembra un uomo molto libero da ogni vincolo politico e capace d’influenzare positivamente le masse» (42)
Non s’era mai visto niente di simile: rimarrà la più ingente donazione politica mai fatta in Italia. Donazione politica, si è detto: la contessa vedeva in Prodi un elemento che poteva «neutralizzare la schizofrenica veemenza di Forza Italia» e in Di Pietro la persona giusta per costruire «un centro che possa offrire un’assistenza legale, sia effettiva che preventiva, al cittadino più indifeso». (43) Prodi a quel tempo girava in pullman per arrivare sino a Palazzo Chigi, Di Pietro invece si avvoltolava in se stesso dopo aver lasciato la toga da pochi mesi: non erano ancora stati assieme al governo, non avevano ancora convissuto nell’Asinello dei Democratici. Malvina Borletti, da un lato, aveva visto lungo. Dall’altra, non aveva visto Di Pietro. E che disse lui di tanta grazia? Era macerato:
«Appena ne avrò l’occasione voglio approfondire le ragioni di questo gesto e cosa lei si aspetta da me. Non v’è alcuna ragione logica per cui una persona che non conosco mi debba regalare una somma così importante. Declinerò l’invito, se non ci vedrò chiaro» (44)
Gli venne la vista di un’aquila: perché non disse più nulla e comincerà a incassare, meglio, ad «approfondire». Ma non subito: il tribunale di Milano congelerà i soldi per via di comprensibili bisticci ereditari e li sbloccherà solo tre anni più tardi. Malvina Borletti – lo scrissero tutti, e a tutti sembrava logico – aveva detto che i soldi erano per attività politiche. A partire dal 15 settembre 1998 sembrò confermarlo anche Di Pietro: comunicò alle presidenze delle camere, come la legge prevedeva, che dal 15 giugno 1998 al 19 marzo 1999 aveva ricevuto tre bonifici dalla contessa. Sono gli atti della tesoreria della Camera a spiegare questi particolari: non certo le spiegazioni di Di Pietro, che sul tema rimase muto come un pescecane. «Io a quei tempi ero sempre con Di Pietro», dirà Elio Veltri, «e mai l’ho sentito dire che aveva incassato i soldi dalla contessa».
La stessa legge sul finanziamento pubblico consentiva di detrarre le donazioni ai partiti dalle tasse: ecco perché il commercialista Alessandro Manusardi, incaricato dalla famiglia Borletti affinché limitasse i danni, cominciò a chiedere qualche riscontro a Prodi e a Di Pietro circa l’uso che avessero fatto delle donazioni. Risposta: silenzio. Quando poi nel 2000 fu chiaro a tutti che l’Asinello di Prodi e il partito dipietrista stavano rompendo, fu la disperazione della Contessa e l’allarme definitivo della famiglia: Francesca e Federico, i figli della contessa, le ridissero che stava buttando i soldi. Intanto il commercialista, discretamente disperato, continuava a chiedere pezze d’appoggio ai due. Lo esaudì almeno il professore: documentò che 545 milioni che aveva ricevuto da un conto svizzero Ubs – esentasse, secondo la legge 346 del 1990 – li aveva spesi nella sua campagna elettorale bolognese come il suo commercialista, Fabrizio Zoli, spiegò con dovizia: sciorinò l’elenco di tutti gli stipendi che aveva pagato con quei soldi.
Antonio Di Pietro non fornì neanche uno scontrino. Mai: «Finora ho recuperato il documento del versamento fatto da Prodi al Movimento per l’Ulivo», disse il commercialista della famiglia, Manusardi, «ma da Di Pietro non ho ottenuto niente». (45) Molto distrattamente l’ex pm fece sapere di «attività politiche diversificate» e che gli erano rimasti «sessantadue milioni circa». (46). In pratica aveva speso tutto, cioè aveva fatto un sacco di attività politica. Sicuro? No, a giudicare da una frase che buttò lì a Panorama del 6 giugno 2000: «La donazione non era, nel mio caso, finalizzata ad attività politiche, ma all’uso che ne avrei ritenuto più opportuno». Ecco. E dove stava scritto? Perché chiunque altro aveva capito il contrario? Perché aveva denunciato dei versamenti alla Camera secondo la legge sul finanziamento ai partiti? Che altro uso «opportuno» poteva celarsi? Dov’era finito quel «centro di assistenza legale» di cui aveva parlato la contessa, quello che potesse aiutare in forma «effettiva e preventiva al cittadino più indifeso»?
Ogni dubbio si fece definitivo quando il tesoriere dell’Italia dei Valori, Renato Cambursano, disse che «l’Italia dei valori non ha avuto alcun contributo proveniente dalla donazione Borletti». Nel bilancio del partito di Tonino di quei soldi non c’era traccia: né ci sarà.
I figli alla fine riuscirono a bloccare ulteriori versamenti: lo stop fu il 13 giugno 2000. Non mancò un’interrogazione parlamentare:(47) la Lega chiedeva se la donazione fosse stata fatta a favore di un movimento o di una persona fisica. Non ci fu risposta, ma era questa: di una persona molto fisica. Dopodiché tutta la faccenda prese a scemare. Se ne riaccennò solo un anno più tardi, quando un’altra contessa, Anna Maria Colleoni, nel luglio 2001 decise di lasciare due miliardi e trecento milioni ad Alleanza nazionale. (48) Il Corriere della Sera rispolverò la questione e andò a vedere le cifre incassate da Tonino e le rivelò nell’indifferenza generale. Quello che Di Pietro voleva, forse.
Seguiva un buio di quasi dieci anni. A risollevare la questione, en passant, fu proprio Antonio Di Pietro il 9 gennaio 2009 nella famosa lettera che scrisse a Libero; in un passaggio in cui cercava di giustificare le sue disponibilità finanziarie, gli scappava:
«Devono aggiungersi ulteriori rinvenienze attive, tra cui una donazione mobiliare per circa 300 milioni di vecchie lire ricevuta nel 1996 dalla contessa Borletti. I fatti sono notori in quanto hanno riguardato come beneficiari altri personaggi pubblici»
I fatti erano notori un accidente. Da una vita Di Pietro liquidava come notorio ciò che aveva taciuto prima che lo si scoprisse: mai grazie a lui, e spesso fuori tempo massimo. Fu poi Panorama a rinfrescare com’era andata: anche se era già tutto scritto, come detto, in un vecchio articolo del Corriere della Sera del 3 luglio 2001. Ecco qua: divisi in tre versamenti, nelle tasche di Di Pietro si erano materalizzati 954 milioni e 317.014 lire. Un miliardo circa. Non 300 milioni. Che cosa ne aveva fatto, visto nel bilancio del partito non ce n’era traccia? Quali le «attività politiche diversificate?». Una domanda stupida: Di Pietro l’aveva appena spiegato nella sua lettera a Libero: operazioni immobiliari. Coi soldi della vecchia. Il commercialista dei Borletti, Alessandro Manusardi, dopo aver letto si limitò a dire questo: «Escludo nella maniera più assoluta che l’obiettivo della signora fosse il finanziamento di qualsivoglia acquisto immobiliare altrui». Sai che problema, per Di Pietro.
«Autostrade» paga il pedaggio
Di Pietro disse perciò una mezza verità e due bugie intere, in quella lettera, anche a proposito dei finanziamenti pubblici da lui incamerati:
«L’Italia dei Valori non riceve finanziamenti da imprenditori o sponsor… Riceveremo invece i finanziamenti pubblici previsti dalla legge… Essi vengono introitati da Idv tutti ed esclusivamente sui 2 conti correnti della tesoreria dell’Italia dei Valori» (49)
La mezza verità era appunto che dei finanziamenti da un imprenditore o sponsor, termine forse improprio per qualificare la contessa Borletti, l’Italia dei Valori in effetti non li aveva ricevuti: li aveva ricevuti lui. La prima bugia o imprecisione, poi, è l’aver dimenticato che i conti correnti erano almeno tre e non due: c’era anche quello della Banca nazionale del Lavoro di Roma (50) su cui la tesoriera aveva chiesto di versare i rimborsi per le europee del 2004, per esempio. Ma può darsi che non abbia granché rilevanza. Infine, sempre a proposito di soldi mai presi da finanziatori o sponsor, vedasi questo scambio tra Di Pietro e la giornalista Antonella Baccaro pubblicato sul Corriere della Sera del 10 maggio 2006:
«Sì, li abbiamo presi anche noi i finanziamenti»
Può dirmi quanto?
«Certo che glielo dico. E che problema c’è? Quanto abbiamo ricevuto? [chiede a Silvana Mura, la tesoriera, ndr]. Sì, ecco, ventimila euro. Abbiamo fatto la ricevuta? Sì abbiamo fatto la ricevuta»
Ha letto anche cosa ha detto a questo proposito il segretario della Cils, Raffaele Bonanni?
«No, che leggere: qui stiamo eleggendo il Presidente della Repubblica…»
Testualmente: «È un fatto di una gravità inaudita. Bisogna chiedersi perché costoro hanno dato soldi ai partiti perché i partiti li hanno presi»
«Noi abbiamo preso i soldi? Ma che abbiamo preso? Ma che soldi? Questo è un modo indecente e indegno di dire le cose!»
Le dica lei.
«Noi possiamo ricevere finanziamenti per il partito in base alla legge. Possiamo riceverne di pubblici e di privati. Io, ad esempio, sono finanziatore del mio partito. Tutto qui»
Quindi non li restituisce?
«Ripeto: il finanziamento di Autostrade è legittimo e trasparente»
C’è chi, per quanto legittimi, quei finanziamenti non li ha presi, come i Verdi e Prc.
«E io rispetto le scelte di tutti. Dopodiché nessuno si permetta di dire che ho preso soldi. È tutto a rigor di legge».
A parte il dato della legittimità, c’è anche quello dell’opportunità. Sono opportuni quei finanziamenti?
«Non ho capito il problema. Se li avesse offerti la P2, piuttosto che la ‘ndrangheta, ok, sarebbero da rifiutare. Ma questa è una società quotata, che c’azzecca?»
Secondo i Verdi, quei soldi in realtà vengono dai cittadini attraverso i pedaggi, per questo andrebbero rifiutati.
«Guardi, questa è una società a capitale misto, quotata, che ha deciso di fare un finanziamento. E lo ha fatto in modo trasparente. Come lo doveva fare?».
Poteva disporre di quei soldi diversamente.
«Io credo che abbia finanziato i partiti affinché possano esercitare la propria funzione nella società» (51)
La società Autostrade, quindi, ha finanziato Di Pietro o l’incorporato partito. Che cos’è Autostrade, imprenditore o sponsor? Forse chiromante: perché trentasette giorni dopo, il 17 giugno 2006, Di Pietro diventerà ufficialmente ministero delle Infrastrutture con competenza sulle autostrade, settore che alla società Autostrade interessava discretamente.
Estratto: «Tutte le pale di Tonino»
Di Pietro prima ha bocciato l’eolico in Molise – da ministro, con l’appoggio del figlio – e poi però non ha eccepito su un parco eolico impiantato davanti casa sua, su un terreno della nipote: con l’appoggio politico ovviamente del figlio Cristiano, che è consigliere comunale di Montenero di Bisaccia.
L’Italia dei Valori sta al Molise come il Pci stava a Bologna negli anni Sessanta, da raccontare ce ne sarebbe. E infatti qualcosa racconta il direttore di primapaginamolise.it, Nicola Dell’Omo: Cristiano Di Pietro junior aveva una Fiat Ulisse. Poi, in coincidenza con le provinciali di Campobasso, si regalò una Bmw X5, 3000 di cilindrata. Il calcolo del rimborso spese per chi risiede lontano dagli uffici, alla Provincia, è diverso rispetto ad altri enti pubblici; mentre altrove si divide per cinque il costo della benzina e poi si moltiplica per il numero dei km percorsi, alla Provincia si tiene conto di cilindrata e cavalli. Più l’auto del consigliere è potente, più alto è il rimborso e la spesa per l’ente pubblico. Questo andazzo tuttavia è terminato nel dicembre 2008, dopo un intervento del ministro Tremonti. Secondo un calcolo più che affidabile, la tratta percorsa da Cristiano per andare e tornare dalla Provincia comportava un rimborso di circa 200 euro al giorno, il quintuplo dei 40 assicurati dalla maggioranza degli altri enti e con in più il vanto di non usare nessuna auto blu. La cifra era da moltiplicare mensilmente almeno per venti volte – registri alla mano – calcolando le sedute di consiglio e le riunioni di commissione. Tra rimborsi e gettoni di presenza, la cifra poteva superare i 5000 euro mensili e senza contare che Cristiano è anche consigliere comunale a Montenero di Bisaccia: tornare allo stipendio da poliziotto, nell’insieme, comporterebbe un certo spirito di adattamento, ma a lavorare in questa direzione tuttavia parrebbe essere lo stesso Cristiano Di Pietro, consigliere provinciale che vuole abolire la Provincia: «Aboliamo le Province e dimostriamo coerenza» disse prima di aggiungere che «io non sono legato alla mia poltrona come molti politici italiani».
Lo scrisse l’11 dicembre 2008. Diciotto giorni più tardi, dopo lo scandalo delle sue richieste di raccomandazioni a Mario Mautone, l’idea di lasciare la poltrona di consigliere provinciale non lo sfiorerà neanche per un minuto. Piuttosto avrebbe abolito tutta la Provincia.
Il numero di macchinoni che scorrazzava grazie a questa storia dei rimborsi potrebbe aprire anche un discorsetto sull’ambiente: lo si risparmierebbe volentieri se non attenesse ancora una volta alla coerenza della famiglia e a sciocche accuse di nepotismo che attendono smentita.
Per spiegarsi meglio si torna di volata alla corsa per le elezioni europee. Nella primavera del 2009 infatti furono in molti a notare quei manifesti con la facciona di Antonio Di Pietro e la scritta «Per un’Europa delle energie rinnovabili» con uno sfondo di simpatiche pale eoliche in contrapposizione a centrali nucleari sporche e cattive. Trattandosi di elezioni europee, vi era da presumere che le pale secondo Tonino andassero sparpagliate in tutto il Continente: forse. Ma non nel Molise. Cioè: dipende.
Va raccontata bene. Nel marzo 2007 l’Unione europea approvò un piano energetico che introduceva delle quote vincolanti per la produzione di fonti energetiche rinnovabili: roba che pareva fatta apposta per un’idea studiata dalla Effeventi, una società milanese che aveva presentato un progetto oltretutto finanziabile con capitale privato. Si trattava di cinquantaquattro pale, alte tra i 60 e gli 80 metri, che svettassero in pieno Adriatico a circa 5 miglia marine dalla costa tra Vasto e Termoli, in Molise. La centrale, sfruttando i venti marini, avrebbe potuto soddisfare
i consumi di almeno 120.000 famiglie e il tempo di realizzazione sarebbe stato anche breve, circa un anno e mezzo: l’idea insomma entusiasmò anche le associazioni ambientaliste tanto che sia Legambiente sia Greenpeace plaudirono all’iniziativa; le pale, secondo il progetto e secondo una simulazione presentata alla stampa, dalla costa sarebbero state appena percettibili a occhio nudo.
La commissione per la valutazione d’impatto ambientale non fece problemi, ma poi si alzò un coro di lagnanze dagli operatori turistici, dai sindaci locali – soprattutto di Vasto e di Montenero di Bisaccia – e ancora dalla Provincia e dalla Regione guidata da Michele Iorio di Forza Italia. Anche la Regione, morale, si oppose. E Antonio Di Pietro? Il pallino, da ministro delle Infrastrutture, era praticamente in mano sua. E si oppose pure lui. Così disse a Luca Sancilio, comandante della Capitaneria di Termoli: «Questa vicenda ci segnala l’urgenza di definire a livello governativo un piano nazionale per l’energia eolica». Quest’uscita democristiana è del marzo 2007. Poi passò al dipietrese: «Si tratta di un progetto nato più nel sottoscala che nelle sedi opportune, e mi appare mosso più da interessi speculativi che industriali». Insomma, non se ne fece niente. Era una cosa da sottoscala. Al tema fu dedicato anche un ridicolo summit familista che Massimo Gramellini, sulla «Stampa», fotografò così:
«Il ministro Antonio Di Pietro ha ricevuto la visita del consigliere provinciale di Campobasso, Cristiano Di Pietro, per discutere la richiesta di una ditta privata che vorrebbe insediare un impianto di energia eolica in Molise. Al termine del summit il consigliere Cristiano, figlio di Antonio, ha manifestato pubblicamente la sua soddisfazione per aver chiesto e ottenuto un incontro con il ministro Antonio, papà di Cristiano. E poi dicono che nelle famiglie italiane non c’è dialogo».
Le associazioni ambientaliste protestarono: «Bloccare il progetto è un’assurdità» disse Legambiente «anche perché l’esperienza straniera ci dice che le cose stanno in maniera esattamente opposta: quello molisano finirebbe per essere un ulteriore richiamo turistico». Le sorprese però non erano finite. Edoardo Zanchini di Legambiente, nel novembre 2008, scoprì un particolare che sembrava cambiare le carte in tavola: la Regione, nei comuni di Montenero di Bisaccia, Guglionesi e Petacciato, aveva dato il via a un nuovo e misterioso progetto di impianto eolico da svilupparsi «in un’area sottoposta allo stesso vincolo paesaggistico dell’impianto bocciato a mare», disse Zanchini.
Il progetto c’era. Si trattava di dodici pale per un’altezza di 80 metri e una potenza generata di 36 megawatt. La proposta era di K.R.Energy Spa (ex Kaitech) e la Regione avrebbe poi dato il suo beneplacito, ma la situazione a questo punto si era fatta confusa. La Confcommercio molisana espresse forti perplessità. Dalla Regione e da Montenero di Bisaccia non una mosca. Nel caso del bi-consigliere Cristiano Di Pietro, dunque, valse il silenzio assenso. Il resto lo racconta ancora Nicola Dell’Omo: «La stessa amministrazione di Montenero aveva dato la sua approvazione con il placet della Regione: parliamo di pali di ottanta metri, non di un parco eolico di piccole dimensioni. L’impianto sorgerà davanti alla masseria di Antonio Di Pietro, sul terreno della nipote, Paola Bozzelli. Ma a parte questo, resta l’obiezione: o i pali eolici ci devono stare o non ci devono stare, in mare o sulla costa che siano».
Dodici pali di 80 metri davanti alla sua masseria. Sopra un terreno di famiglia. Se Cristiano e Antonio Di Pietro fossero stati contrari, forse, l’avrebbero timidamente segnalato. Sicuramente erano contrari al progetto della Effeventi perché era «da sottoscala», diceva Tonino.
Forse era stata una svolta ecologista favorita da una più approfondita conoscenza di Beppe Grillo. Ecco perché quei manifesti con le centrali nucleari da film catastrofico. Le sue uscite di quel periodo furono conseguenti: «Solo un truffatore come Berlusconi potrebbe non riconoscere che i referendum dell’87 manifestavano la volontà del popolo italiano di non sposare il binomio futuro-nucleare … il futuro è nelle energie rinnovabili». Il 20 aprile 2009 Tonino accettava anche un’intervista col direttore di Greenpeace Italia, associazione che avrebbe voluto impiantare le pale che lui aveva bloccato: «Il governo Berlusconi ci allontana dal vero sviluppo energetico di cui abbiamo bisogno e ci spinge su binari lontani dalle energie rinnovabili, unica vera opportunità nei prossimi decenni».
La coerenza è coerenza. Di Pietro l’aveva detto anche nel luglio 2008, pieno tempo di grillini e di piazza Navona: «Noi dell’Italia dei Valori abbiamo sempre detto che il nucleare è un’energia obsoleta e pericolosa». L’abbiamo sempre detto. Solo dieci mesi prima, infatti, diceva il contrario: «Il ministero dell’Ambiente non aiuta lo sviluppo … il nucleare oggi non è come quello di ieri. Non so se ne abbiamo davvero bisogno, vorrei adoperarmi affinché non vi si ricorra, ma non facciamo demagogia. In attesa che un’energia differenziata possa attecchire, abbiamo bisogno di un’energia domani mattina, sennò quest’inverno rimaniamo al freddo».
Non facciamo demagogia. Se c’è da costruire per esempio un’autostrada da 3 miliardi di euro in Molise – l’opera che il paese attende – Di Pietro potrebbe anche allearsi con Forza Italia. Infatti fu sotto il suo ministero delle Infrastrutture che venne costituita la società Autostrade del Molise spartita col governatore forzista Michele Iorio. La presidenza e metà consiglio di amministrazione andarono a uomini di Iorio, l’altra metà a uomini di Tonino. In fondo Tonino aveva trovato un accordo anche col governatore della Lombardia Roberto Formigoni per l’autostrada Bre.Be.Mi. La differenza è che in Molise il rapporto con Iorio era molto più stretto: non si contavano le manifestazioni di reciproco elogio.
Tutto era possibile nella Ceppaloni di Tonino. Persino che l’Italia dei Valori e Forza Italia governassero insieme come a Venafro, in provincia di Isernia, un centro discretamente importante anche se il meno molisano tra tutti: appiccicato alla Campania e distante una novantina di chilometri da Napoli, è una di quelle allegre cittadine in cui i sindaci decadono per incompatibilità e i tassi di generico abusivismo fanno sembrare Alto Adige persino la Calabria. Fu prima delle elezioni amministrative dell’aprile 2008 che su siglato l’accordo contronatura: il presidente forzista della Regione, Michele Iorio, favorì una spaccatura del centrodestra e quindi la nascita di «Venafro sarà», un’incredibile lista-minestrone da contrapporre a quella dell’europarlamentare di centrodestra Aldo Patricello, suo avversario politico e uomo che raccoglie spropositate quantità di voti nelle zone già descritte da Roberto Saviano in Gomorra. Nella lista di Iorio furono mischiati uomini di Forza Italia, di Alleanza nazionale, dell’Italia dei Valori e di altre forze minori: il problema è che Iorio era il leader del futuro Pdl, non di una lista civica da contrapporre ad altri candidati di centrodestra. Morale: la lista di Iorio vinse e piuttosto che allearsi con la lista di Aldo Patricello preferì proseguire il grande abbraccio che già da tempo segnava i rapporti tra Di Pietro e il governatore forzista. Ergo: sindaco diventò Nicandro Cotugno del Pdl e assessore al Commercio fu nominato Adriano Iannaccone dell’Italia dei Valori, medesimo partito che grazie a Nino Palumbo occupò anche la presidenza del consiglio comunale.
Il doppiogiochismo molisano di Michele Iorio e Antonio Di Pietro – quest’ultimo alleato con lo stesso Pdl a cui attribuiva dittature antidemocratiche a livello nazionale – nel tempo si è risolto in una voragine di voti persi tuttavia soltanto dal centrodestra. Il Molise è unica regione italiana che alle politiche del 2008 è infatti passata al centrosinistra per numero di voti: nel 2006 la coalizione di centrodestra aveva preso il 49,1 per cento (102.206 voti) mentre nel 2008 la stessa coalizione ha preso il 41,8 (82.561 voti).
Il fallimento politico di Michele Iorio è stato paradossalmente premiato dallo stesso Pdl: nonostante abbia governato la regione per otto anni – per un certo periodo assumendo anche l’interim dell’assessorato alla Salute – il 24 luglio 2009 Iorio è stato nominato commissario alla Sanità a dispetto di un deficit sanitario salito a 700 milioni di euro proprio nel corso della sua presidenza. Di fronte alla conclamata urgenza di contenere spese e clientelismi, oltretutto, il neocommissario risultava così imparentato: suo fratello è primario a Isernia; sua sorella lavora al distretto sanitario di Isernia; il marito di sua sorella è primario a Isernia; suo figlio Raffaele ha aperto un centro privato di ortopedia a Isernia mentre chiudeva il reparto di ortopedia dell’ospedale di Isernia; suo figlio Luca è stato assunto all’ospedale di Isernia; una sua nuora, infine, è stata assunta come anestesista naturalmente a Isernia.
Servisse specificarlo, Michele Iorio è di Isernia.
«L’immagine di Di Pietro vale dieci miliardi» disse un offuscato Gavino Sanna che stava curando la campagna pubblicitaria per «Il Telegiornale» di Gigi Vesigna, ex direttore di «tv Sorrisi e Canzoni» ora tentato dalla sfida del quotidiano popolare. Così il 3 maggio 1995 Di Pietro divenne «garante del lettore» e in Tv comparve uno spot col suo faccione e sotto la scritta «Garantisce lui». Era uno dei tanti quotidiani nati morti. Due dei promotori, Ismaele Passoni ed Egidio Maggioni, erano vecchie conoscenze di Tonino dai tempi del mensile democristiano «Gran Milàn». Per il lancio del nuovo giornale, il 14 febbraio era stato versato 1 miliardo di capitale sociale come indicato dal budget della C&C di Luciano Consoli, noto per aver già dato vita al quotidiano «La Voce», morto pure quello.
Aspettando i lettori, Di Pietro non fu propriamente garante dei giornalisti. Degli editori, infatti, poco seppe o finse di sapere. Ismaele Passoni era reduce dal fallimento della Ariete Edizioni, dove gli ex dipendenti sin dal giugno 1994 erano rimasti «senza posto di lavoro, senza liquidazione e senza neppure l’ultimo stipendio»,25 oltre a essere impegnati in una causa fallimentare senza speranza; ora, invece,
Passoni rispuntava in un quotidiano in cui investiva qualche miliardo con Di Pietro addirittura garante. Neanche il curriculum del finanziatore Raimondo Lagostena ebbe a impensierirlo: massone della loggia Camea, era stato incarcerato nel 1985 per una serie di guai legati ai finanziamenti regionali promossi dal presidente della Liguria Alberto Teardo, era stato condannato a quattro mesi per aver messo in commercio le improbabili pomate Taurus e Mandingo che garantivano prominenti nottate sessuali, era stato presidente dell’emittente Rete Mia in cui aveva cooptato il transessuale Maurizia Paradiso prima di cederla – la rete – al bancarottiere Giorgio Mendella.
Ma al «Telegiornale» garantiva lui: e così Di Pietro, nel suo primo editoriale, si impegnò «formalmente a non essere di parte, a non schierarsi né a Destra né a Sinistra, né al centro né a trequarti». Sarà tutta l’avventura a finire in orizzontale, purtroppo: ma il 9 maggio ecco il primo numero. Tonino aveva la sua pagina con foto e doveva rispondere anche alle lettere: «Assicuro che lo farò. Mi riesce difficile provvedere già da oggi» si dolse «essendo impegnato presso la commissione stragi». Per quanto atteneva al garante del lettore, si lesse testualmente: «Caro direttore, permettimi una considerazione sul contenuto del primo numero del quotidiano: va bene così».
Di lettere in generale ne giunsero poche. In una si ricordava quando Di Pietro, nel Natale precedente, si era azzuffato con un giornalista e l’aveva preso a testate: «Ho visto la sua faccia furiosa davanti alla telecamera e ho sperato che lei, con un randello, facesse piazza pulita di fotografi e cameramen». Di Pietro rispose: «Eviterò di rispondere a fatti che riguardano esclusivamente la mia persona e la mia vita privata». Cioè non rispose.
Il 16 maggio una lettera chiedeva lumi sull’assetto proprietario della testata: «Ha avuto l’accortezza di preoccuparsi di sapere chi c’è dietro?». Di Pietro rispose: «Non so chi ci sia dietro e non lo voglio nemmeno sapere … perché bisogna porsi il problema dell’identità dei proprietari? Fino a questo momento hanno dato dimostrazione della loro buona fede». E già.
Il 17 maggio una segnalazione per il garante: un articolo sull’inefficacia delle diete che era stato affiancato a una pubblicità che prometteva dimagrimenti impossibili. Il garante rispose: «Annotazione
calzante e arguta … il commento e l’eventuale risposta non è assolutamente necessaria». Perciò non commentò. E non rispose.
Intanto, dalle edicole, i resi erano miliardari. Il telegiornale, la gente, se lo guardava in televisione. Vesigna accusò Di Pietro di non scrivere
praticamente mai, bisticciarono, sinché il 3 giugno il direttore apprese che se n’era andato: lo lesse sulle agenzie. Di Pietro smetteva di garantire i lettori (che non c’erano) per via delle solite inchieste bresciane. «Il Telegiornale» chiuse dopo neanche due mesi di pubblicazioni.
Il 20 luglio 1995 fu dichiarato il fallimento.
Due anni dopo, il pubblico ministero Giulia Perrotti contesterà agli editori del «Telegiornale» il reato di «bancarotta preferenziale». Prima
che lo sfortunato quotidiano chiudesse, infatti, precisamente il 2 giugno 1995, un paio di creditori furono liquidati con soldi che non potevano essere pagati perché l’azienda stava per fallire. Uno fu Gigi Vesigna, l’altro fu Antonio Di Pietro che aveva preteso 100 milioni di lire– sempre quelli – incassati in via illecitamente «preferenziale». La curatrice fallimentare, Rita Albano, gli richiese indietro i soldi per mesi: «La sottoscritta ritiene revocabile detto pagamento in quanto l’editoriale Tg già a quella data si trovava in stato di insolvenza … Il pagamento è da ritenersi comunque revocabile anche per la sproporzione del corrispettivo incassato rispetto al lavoro effettivamente svolto». Cioè sei articoli in tutto: il resto era per l’attività di garante «che si estrinsecava essenzialmente nelle risposte ai lettori». E le abbiamo viste.
Di Pietro deciderà di restituire i soldi soltanto a 1997 inoltrato, ma non più di 40 milioni. Il resto, precisò il suo legale a margine di questa storia, l’avrebbe tenuto «a copertura delle sole spese vive nell’espletamento degli incarichi assolti». Quando si fece notare che in pratica Di Pietro aveva preso circa 17 milioni ad articolo, la risposta fu questa: «Il contratto prevedeva importi ben maggiori, in linea con il valore di una firma a cui si associano valenze morali che è semplicemente improponibile valutare nei termini di un tanto a riga».
Quelli che scrivevano un tanto a riga, i giornalisti, aspettavano a casa.
Nelle stesse ore in cui Di Pietro diceva «È vergognoso usare il Lodo Alfano anche per difendersi dall’accusa di diffamazione», Antonio Di Pietro si serviva dell’immunità parlamentare per evitare una condanna certa per diffamazione.
***
Antonio Di Pietro era pur sempre l’uomo che aveva capovolto una Repubblica, era l’ariete che dal 1992 al 1994 aveva indagato un Parlamento che passava metà del tempo a discutere le autorizzazioni a procedere che lui aveva richiesto, e negarne una era lo sfregio massimo, l’ultimo arroccamento del regime morente, il sigillo dell’impunità. Erano state alcune mancate autorizzazioni nei confronti di Bettino Craxi – e neanche tutte: due su sei furono concesse – che il 29 aprile 1993 avevano scatenato una mezza guerra civile che aveva portato alla parziale abolizione dell’immunità parlamentare. Di Pietro da una parte, Craxi dall’altra. Ora c’era solo Di Pietro uno e due.
La nemesi definitiva, a diciassette anni da Mani pulite, era che Antonio Di Pietro si era trincerato dietro l’immunità parlamentare per non essere condannato in una causa per diffamazione che l’avrebbe sicuramente visto soccombente, cioè perdente. Il Parlamento di Bruxelles, il 22 aprile 2009, decideva di non revocare lo scudo dell’immunità che lo stesso Di Pietro aveva chiesto dopo averlo pubblicamente negato. Non era neppure un procedimento penale, era una causa civile: significava che Di Pietro l’aveva fatto solo per non perdere dei soldi. Proprio come i mostri della casta.
Di Pietro è nei particolari. Nell’ottobre 2002 aveva scritto un articolo sul quotidiano «Rinascita della sinistra», organo dei Comunisti italiani, e non ne aveva azzeccata una: aveva qualificato il giudice Filippo Verde come un imputato nel processo per il Lodo Mondadori– dipingendolo oltretutto come uno dei giudici che avevano influenzato l’annullamento di una sentenza favorevole a Carlo De Benedetti– e nello specifico aveva messo nero su bianco che «per l’insieme di queste vicende, la pubblica accusa rappresentata dalla tenace Ilda Boccassini ha chiesto pene di tutto rispetto, tra cui 10 anni per il giudice Filippo Verde».
Ma Filippo Verde non era mai stato coinvolto in quel processo: era stato imputato in un altro, il cosiddetto Imi-Sir, e peraltro ne era uscito assolto in primo e secondo grado. Di Pietro della castroneria non solo non si accorse, ma nel febbraio 2003 la ripubblicò tale e quale sul sito internet dell’Italia dei Valori. E a quel punto partì una causa per diffamazione con richiesta di risarcimento danni, visto che Tonino non aveva mai smentito né rettificato ma addirittura reiterato, per usare il suo linguaggio.62 I legali di Filippo Verde gli chiesero 210.000 euro di risarcimento. Del suo errore, Di Pietro darà colpa ancora una volta ai giornali.
Di Pietro scrisse quell’articolo nel 2002 e cioè quando era eurodeputato. Perciò, un anno e mezzo più tardi, dopo che la pratica si era congelata nella cancelleria del Tribunale di Roma, presentava richiesta di immunità europarlamentare e incaricava della pratica l’avvocato Sergio Scicchitano, deputato dell’Italia dei Valori e già autore di varie querele dipietresche ai danni di giornalisti che facevano errori come il suo o più lievi del suo. La richiesta fu inoltrata a Bruxelles all’inizio del 2007:
«L’articolo deve intendersi quale espressione di critica politica e dunque si richiede che nel caso di specie venga applicato l’articolo 68 della Costituzione».
Critica politica. Uno scrive che un giudice ha influenzato illecitamente una sentenza – la peggiore delle accuse, per un giudice – e dice pure che per questo volevano condannarlo a 10 anni: una classica critica politica.
I giudici romani spedirono le carte all’apposita commissione di Bruxelles perché l’Europarlamento valutasse. Era da una vita che Di Pietro.
Di Pietro per qualsiasi sciocchezza invitava la classe politica a farsi giudicare come cittadini qualsiasi. Così pure fece nel 2007 e nel 2008: L’articolo 68 della Costituzione [l’immunità parlamentare] va cancellato perché aveva senso quando fu scritto, dopo la fine del fascismo. Ho sempre detto che andrebbe abrogato.63
L’aveva ripetuto di recente:
Se Berlusconi vuole querelarmi, rinunci all’impunità.64
Quando Di Pietro querelava un altro politico, poi, non mancava mai di scrivere:
Mi auguro che, come me, Ella rinunci all’immunità e accetti il giudizio del giudice terzo.65
Quelli poi non erano giorni qualsiasi: era il febbraio 2009 e c’era Di Pietro per strada che raccoglieva firme contro il Lodo Alfano. La notiziola che Di Pietro aveva chiesto l’immunità la diede per primo e praticamente per ultimo Paolo Bracalini, cronista del «Giornale».
Di Pietro rispose il 6 febbraio, come infastidito:
Con riferimento alle notizie di stampa che ipotizzano ciò che io andrei a sostenere al Parlamento europeo la prossima settimana, specifico che non chiederò l’immunità, ma che il procedimento civile prosegua … Tale rinuncia all’immunità verrà da me formulata in un atto scritto che pubblicherò sul mio blog, in modo da evitare qualsiasi strumentalizzazione.
Non chiederò l’immunità, voglio che mi processino, vi terrò informati. Di Pietro ogni tanto dismetteva improvvisamente la sua chiarezza popolana, ma aveva scritto questo.
Ed eccoci al 22 aprile 2009:
Approvando con 654 voti favorevoli, 11 contrari e 13 astensioni la relazione di Aloyzas Salakas (Pse, Lt), il Parlamento ha deciso di non revocare l’immunità di Antonio Di Pietro a seguito dell’ordinanza del Tribunale Civile di Roma rivolta al deputato nella causa civile intentata da Filippo Verde. In tale ordinanza il Tribunale italiano, esaminando l’argomento difensivo sollevato da Di Pietro «sotto forma di eccezione di insindacabilità », ha chiesto al Parlamento europeo di decidere sulla sua immunità, dal momento che all’epoca dei fatti egli era parlamentare europeo …
egli stava esercitando le sue funzioni di parlamentare, esprimendo la sua opinione su un tema d’interesse pubblico per i suoi elettori. Cercare di imbavagliare i parlamentari, avviando procedimenti giudiziari nei loro confronti, per impedire loro di esprimere le proprie opinioni su questioni che suscitano un legittimo interesse e preoccupazione nell’opinione pubblica, è inaccettabile in una società democratica.66
Il quello stesso giorno, il giorno in cui l’immunità da lui richiesta lo aveva salvato, per coprire la notizia Di Pietro dichiarò:
Silvio Berlusconi si avvale del Lodo Alfano anche per sfuggire alla mia querela … È vergognoso usare il Lodo Alfano anche per difendersi dall’accusa di diffamazione.67
A dire quel che si pensa, l’immunità tornerebbe utile.
Note
62 Come spiega la stessa «Relazione sulla richiesta di consultazione sull’immunità e i privilegi di Antonio Di Pietro dell’Europarlamento», 23 aprile 2009: «Di Pietro ha riconosciuto che il suo articolo conteneva un “errore madornale” … In effetti, Filippo Verde non è mai stato coinvolto nella vicenda processuale del Lodo Mondadori, mentre lo è stato nel processo Imi-Sir, nell’ambito del quale era stato assolto da tutte le imputazioni contestategli. Nella sua difesa, Di Pietro ha sostenuto che questo errore tecnico/redazionale si è verificato perché i mass-media accomunavano normalmente le due vicende giudiziarie con il termine “processo Imi-Sir/Lodo Mondadori”».
63 Ansa, 23 luglio 2007.
64 Ansa, 12 aprile 2008.
65 «Il Giornale», 23 aprile 2009.
66 Comunicato dell’ufficio stampa del Parlamento europeo, 22 aprile 2009.
Anche in Relazione sulla richiesta di consultazione sull’immunità e i privilegi di Antonio Di Pietro, 23 aprile 2009.
67 «Il Giornale», 23 aprile 2009.
7 commenti presenti
Dite che questo libro sia stato scritto con la stessa clamorosa superficialità con cui Facci descrive le Vicende di Silvio Berlusconi?
Non credo, anzi sono certo dell’ottimo grado di dettaglio di questo lavoro.
Poi però leggo degli articoli come quello del 10 ottobre, su Libero, in cui si sostiene la teoria del “ribaltone in corso” rielencando assoluzioni, prescrizioni, archiviazioni del Premier. Facci andrebbe avvertito, non scrive più per Silvio Berlusconi, ogni tanto accanto a quei freddi “assolto-assolto-prescritto-prescritto” bisognerebbe metterci qualche motivazioncina, qualche curiosa dinamica, no? Questo fanno i giornalisti.
Un’assoluzione per noi comuni mortali non equivale ad un’assoluzione per la depenalizzazione del reato in questione, effettuata dallo stesso soggetto beneficiario. Per dirne una.
Ancora. I bravi giornalisti quando subiscono una censura (“Mi hanno sempre censurato sulla Carfagna … io a 40 anni non posso … etc etc”) lo denunciano immediatamente, oppure si dimettono, cambiano aria. Non piagnucolano in nazional visione dopo essersi piegati per mesi al volere direzionale, per poi continuare a lavorare (catodicamente parlando) per il Santo Papi e Claudio Brachino.
Un saluto a tutti, in bocca al lupo sincero per il libro a Facci.
______________
(Libero, 10 ottobre: “Ma quale accanimento”)
http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=NMUQI
Scritto da Wn il 13 Ott 2009
Per sapere se il libro riporta fatti accertati, basterà aspettare le reazioni di Tonino, che quando è chiamato in causa non risparmia querele, lui.
Non si vanta, del resto, di aver acquistato molte delle sue proprietà immobiliari con i risarcimenti ottenuti? (dimentico della “donazione” Borletti,ça va sans dire).
Scritto da asdrubale il 13 Ott 2009
@ asdrubale,
credo che Antonio Di Pietro sia il politico più facile alla causa contro gli organi di stampa, un vero recordman. Probabilmente non si smentirà in futuro.
Quello che dovrebbe lasciare perplessi è il cosa ci stava a fare un noto querelatore di giornalisti alla manifestazione sulla libertà di stampa
Scritto da Sergio Fornasini il 13 Ott 2009
Penso che il sig. wn, dovrebbe ricordare che Filippo Facci, è stato seriamente boicottato, come tanti altri professionisti, perchè non siè piegato al regimetto di collusi e similkamorristi, che ha dominato l’ italietta dei koglioni ed ora brucia che si cominci a ricordare alcuni episodi di quello schifoso periodo: mi auguro non ci si dimentichi di scalfvo. Lo penso, ma ovviamente non lo dico. Complimenti Sig. Facci: può considerare venduta una copia.
Giovanni Garotti
Scritto da Giovanni Garotti il 23 Nov 2009
mi sto chiedendo quale sia l’intenzione, il perché di questo libro.
è solo e semplicemente, uno spaccato del dopo tangentopoli, una ricostruzione dei fatti letti da un altro punto di vista oppure si cerca di screditare per un fine politico l’immagine di di pietro?
fosse questa seconda ipotesi proprio non riesco a capire: dimostrato che di pietro non è un santo oggi come oggi è l’unico politico che fa realmente opposizione, l’unico che ha il vezzo di non candidare indagati e comunque rispetto alle pendenze giudiziarie di berlusconi fa la figura del dilettante e forse dell’eroe perché ha voluto regolare i conti con la giustizia.
comunque sia ben vengano le ricostruzioni, soprattutto se documentate
Scritto da manuela il 1 Feb 2010
>>>comunque sia ben vengano le ricostruzioni, soprattutto se documentate
a scanso di equivoci: non è ironia
Scritto da manuela il 6 Feb 2010
interessante tutto e dettagliato…..dipietro è un [omissis]
Caro Claudio, potrei anche essere d’accordo con lei ma le regole sono chiare: niente insulti in questo blog, di conseguenza il suo commento viene censurato, spiacente
(sf)
Scritto da CLAUDIO VASCOTTO il 6 Feb 2010