FONDI COMUNI: NEANCHE DOPO 10 ANNI DANNO SODDISFAZIONI…
4 Febbraio 2011di Gianluigi De Marchi
In tutti i dépliants pubblicitari dei fondi comuni ed in tutti i discorsi fatti dai loro venditori per collocarli c’è una frase martellante per convincere il risparmiatore: “I mercati possono andare su o giù, ma nel lungo periodo i buoni investimenti danno sempre soddisfazioni”.
Il problema, però, è sapere quanto è lungo il “lungo periodo” e se si tratta di 5 anni, di 10 o di 20…
Il fatto è che l’instabilità ed il nervosismo di tutti i mercati finanziari (non solo quelli azionari ma anche quelli obbligazionari) hanno reso sempre più incerte le prospettive ed hanno sbriciolato tanti luoghi comuni; ed il principale è quello del rendimento positivo nel “lungo periodo”.
E’ vero che nei primi dieci anni del nuovo millennio è successo un po’ di tutto, dalla bolla tecnologica alla bolla dei subprime, dalle crisi di aziende apparentemente solide alla diffusione dei titoli “tossici” che hanno avvelenato i bilanci delle banche; ma è anche vero che il compito dei gestori dovrebbe essere quello di saper valutare situazioni e prospettive senza lasciarsi andare ad euforie fuori luogo (vedi il sovradimensionamento dei titoli legati ad Internet in tutti i portafogli azionari negli anni 1999-2000).
E così pochissimi fondi sui quasi 2.000 collocati in Italia possono oggi vantarsi di aver dato buone performance rispetto alla fine del millennio: quasi 600 di loro chiudono il decennio in rosso, con una punta negativa di una perdita del 76%! (si tratta del fondo JPMorgan US Technology).
I gestori si giustificano affermando che sono legati al regolamento: se esso prevede investimenti nel settore tecnologico, non possono che riempire il portafoglio di titoli tecnologici… Giustificazione debole, ovviamente, perché non sta scritto da nessuna parte che, con prospettive palesi di gonfiamento delle quotazioni, un gestore debba continuare a comprare, potrebbe anche mantenere una quota di liquidità a protezione del valore delle quote! E che le prospettive fossero pessime (così come erano molto brutte quelle dell’estate del 2007, ben prima che esplodesse la “bomba subprime”!) era sotto gli occhi di tutti ed evidenziato dalla stampa specializzata e da molti osservatori indipendenti.
Considerando che chi ha chiuso positivamente appartiene, per la stragrande maggioranza dei casi, alla categoria dei monetari e degli obbligazionari (le cui performance però sono largamente inferiori al parametro di riferimento, e si sono quindi rivelati inefficaci…) e che fra gli azionari solo quelli specializzati nei paesi emergenti ha dato buoni risultati (ma, ovviamente, affrontando rischi molto alti) non si può non restare fortemente delusi.
Gli effetti di una situazione del genere non sono lievi: i risparmiatori si sono stancati di sentirsi ripetere il ritornello del “lungo periodo” ed hanno abbandonato i fondi comuni. Le cifre sono impietose: il patrimonio totale si è ridotto di quasi 200 miliardi di euro, a beneficio di altre formule d’investimento (in primis obbligazioni bancarie e polizze, alla ricerca – spesso effimera… – di una maggior sicurezza).
E così uno strumento prezioso di “democrazia finanziaria” e di indubbia validità sotto il profilo della ripartizione del contenimento del rischio si trova ad attraversare la fase più difficile e delicata da quando è comparso in Italia.
Occorrerebbe un drastico ripensamento delle strategie dei gestori, l’ammissione dei tanti errori compiuti ed una maggior attenzione alle effettive necessità dei sottoscrittori: perché sono loro, e non le banche, i veri “padroni” di un fondo comune!