Consumarsi le scarpe col giornalismo enogastronomico
23 Luglio 2008di Tommaso Farina
Cos’è il giornalista gastronomico? Risposta della gente: «Uno che scrive di ristoranti e cucina». Vero e giusto. Giusto e vero. Ma non in esclusiva.
Io stesso nei miei articoli giornalistici e nel mio blog, parlo di ristoranti. Ma non solo.
Io parlo anche dei prodotti. Un salame, un pecorino particolare, un artigiano fuori dal mondo che, senza seguire criteri industriali, produce conserve di frutta e verdura da vertigine: tutte cose che ai lettori interessano molto, almeno al pari di un ristorante.
Eppure, proviamo a far mente locale. Quante rubriche gastronomiche dedicate ai ristoranti ci sono sui quotidiani italiani? Parecchie. E quante dedicate ai prodotti gastronomici? Molto meno. Fa eccezione la Stampa, che non solo ha un magnifico inserto che sviscera la tematica con Paolo Massobrio e altri giornalisti, ma ha anche una pagina dedicata all’interno del dorso cittadino TorinoSette (consultabile comunque via web), ove scrive Cosimo Torlo. Poi c’erano le mie rubriche su Libero, temporaneamente sospese (ebbene sì, anch’io faccio cronacaccia) ma in predicato di tornare.
Perché così poche rubriche di prodotti? Risposta mia: perché fare il giornalista dei ristoranti è più facile. O almeno, meno faticoso.
Attenzione: quando dico “facile”, non intendo dire che non ci voglia preparazione e attenzione nel giudicare e criticare un pasto. Tutt’altro. Io non parlo della facilità. Parlo della portata. I ristoranti sono più a portata di mano.
I ristoranti sono sviscerati da numerose guide nazionali, diffuse e di lunga storia. Chi volesse scrivere di un ristorante, non ha che da prendere una guida, sceglierlo, visitarlo e raccontarlo. I talent scout dei ristoranti, quelli che magari rischiano di prendersi una bella sòla pur di rischiare un posto sconosciuto, ci sono ma sono troppo pochi.
E le guide dei prodotti? Saranno al massimo due o tre. Ergo: chi vuol scrivere di un prodotto, deve andarselo a scoprire, qui ascoltando una voce, là leggendo una riga su internet. O semplicemente, prendendo la macchina e recandosi in una zona gastronomicamente interessante.
Quand’ero freelance, facendo questo ho percorso circa cinquemila chilometri al mese. Se davvero il giornalismo è consumare le suole delle scarpe per trovare qualcosa di giornalisticamente interessante, io non mi posso lamentare: le scarpe le ho letteralmente logorate.
Non sarà che i ristoranti sono lì, comodi, a portata di mano, facilmente rimborsabili dai giornali (giustamente), mentre per scrivere di un prodotto magari devi alzarti presto, partire, assaggiare senza rimborso (io non mi presento, mi “travesto” da normale cliente compratore)?
11 commenti presenti
poi mi spiegherai anche travestito come fanno a non riconoscerti….
comunque bravo! hai scoperchiato un vaso di pandora.
Scritto da liloni adriano il 23 Lug 2008
Interessante precisazione e spunto di riflessione, in effetti si tende ad associare la cosidetta stampa eno-gastronomica ai luoghi deputati a consumare cibo piuttosto che ai prodotti. Comunque Tommaso mi consenta di dire che raramente appunto vengono recensiti prodotti ottimi ma di nicchia, ma si tralascia anche di fare giornalismo di inchiesta sugli alimentari prodotti su larga scala ma di qualità discutibile se non scadente, a parte quando ci arrivano i NAS o la Finanza e allora fa notizia. Tanto per fare qualche esempio, il prosciutto di Modena tempo fa si poteva gustare con un certo piacere, anche se personalmente preferisco quello più stagionato. Da qualche tempo è immangiabile quello di tutti i produttori, praticamente è ancora vivo. E le patate? La bio diversità è sparita, comprarne un kg a Palermo, Roma o Milano è esattamente la stessa cosa, il sapore sempre quello (mediocre). Le puoi fare come vuoi, lesse, al forno, fritte o ci puoi anche fare gli gnocchi ma il risultato non cambia: non sanno di nulla.
Capisco che i giornalisti sono legati alla testata e questa a sua volta agli inserzionisti pubblicitari, quindi scovare un formaggio raro prodotto in malga sicuramente non fa male a nessuno, nemmeno ai grandi produttori per le esigue nuove quantità eventualmente immesse in più sul mercato. Certo però che un bel servizio su quotidiano nazionale sul perché le patate non sanno più di nulla ogni tanto potrebbe fare bene, anche alla salute oltre che al palato.
Saluti
Scritto da giulio contini il 23 Lug 2008
Sono perfettamente d’accordo, andarsi a trovare i prodotti, conoscere i produttori, sporcarsi le scarpe di fango e di ben altro nelle stalle, beccarsi il raffreddore sulla neve, l’insolazione in alta montagna e conquistarsi la fiducia di contadini spesso in grado solo di sopravvivere nonostante l’enorme lavoro è duro, pesante e costoso.
Ma per quanto mi riguarda è del tutto appagante, esaltante ed anche stuzzicante, i prodotti gustati sul posto sono insuperabili.
E forse perché c’è poco mercato, ancora. La maggioranza dei facoltosi che seguono le indicazioni delle rubriche gastronomiche assaggiano gli eventuali prodotti direttamente in ristorante pagando anche parecchio, ma in fondo… perché impegnarsi troppo? 🙂
E lo dico per pura e diretta esperienza personale, eh! Ecco qui: http://www.fattoriaitaliana.com/it/prodotti.php
Scritto da Andrea Sofia il 23 Lug 2008
@adriano: ciao, ben trovato.
@giulio contini: siamo qui appunto per questo, per scoperchiare certo squallore gastronomico che impera ovunque. Lo sai che i grandi industriali della carne producono la Bresaola della Valtellina con carne di zebù proveniente dal Brasile? E non perché è migliore, ma perché è economicamente conveniente, e adattissima a esigenze che privilegiano più la qualità del processo produttivo che quella del prodotto finito. La Bresaola di zebù si può anche mangiare, ma quella di carne italiana (o valtellinese, la pochissima che è rimasta) è un’altra cosa. Certo, non ci puoi fare i miliardi, ma noi giornalisti possiamo benissimo ragionare con gli occhi rivolti al consumatore finale, anziché a industriali che hanno ben altra scaltrezza nel far valere la loro visione delle cose.
Scritto da Tommaso Farina il 23 Lug 2008
Si Tommaso, ho letto su “Panorama” della carne sudamericana utilizzata per la bresaola IGP della Valtellina, non so se sia stato il primo a pubblicarla. La notizia è stata rilanciata da diverse fonti, molti giornali o blogs online (compreso il suo). Se non ricordo male però la “scoperta” della carne carioca nella bresaola è avvenuta in conseguenza di una limitazione imposta dall’Unione Europea all’import di carne bovina dal Brasile, con lamentela dei produttori valtellinesi per la conseguente carenza di materia prima.
Non mi sembra che sia stato il risultato di una inchiesta giornalistica anzi, sono stati i produttori che si sono auto-denunciati perché non potevano più produrre a pieno ritmo. Gli stessi valtellinesi hanno difeso la loro scelta dicendo che la carne italiana o europea è troppo grassa, con quella di zebù la bresaola IGP viene meglio…. no comment
Altro che la qualità è il business che la fa da padrone, e chissenefrega del made in Italy e tutti gli ammennicoli vari
Scritto da giulio contini il 23 Lug 2008
Ciao Tommaso,
interessante punto di vista, provo a fare l’avvocato del diavolo…
Visto il periodo non credo che sia stimolante, per il consumatore (normale e non), sapere che esiste, ad esempio, il carnaroli Zaccaria o l’Acquarello…credo che in un momento come questo si punti al prodotto da discount…alla faccia del gusto, purtroppo…
Che poi nessun giornalista(o giornale)si occupi attivamente di scovare prodotti, lasciando che le varie lobbies facciano i loro comodi, beh, questo è vero, ma credo che se si provasse a chiedere in merito si riceverebbe la risposta tipo “con questa crisi…”
Scritto da massimo il 23 Lug 2008
se pensate che i prodotti di certi piccoli produttori(vedasi parmigiano 36 mesi o prosciutto 24 mesi di Rubina oppure il citato Zaccaria) costano meno prendendoli all’origine che non altri prodotti industriali che hanno filiere di distribuzione piu’ lunghe…..questa la dice lunga sull’informazione ….basterebbe organizzarsi in grppi, anche familiari e farsi spedire il prodotto….sembra utopico ma e’ piu’ realizzabile di quello che si crede…..oltretutto si darebbe spazio anche a produttori altrimenti strozzati dai prezzi imposti loro dalla gdo.
Scritto da liloni adriano il 23 Lug 2008
E’ quello che pensavo anch’io, in effetti.
Scritto da Tommaso Farina il 23 Lug 2008
forse non mi sono spiegato bene, parlavo di riso (per citare l’esempio) da 1 euro al kg in gdo…che poi non sia il massimo, ok, siamo d’accordo, ma non credo che prodotti di nicchia come quelli da me citati possano costare cifre abbordabili (per tutti) ed inferiori in misura sensibile (diciamo il 50%)a quanto proposto dalla gdo.
Nel mio piccolo, con un’altra coppia di amici, quando è possibile ci rechiamo a Costigliole d’Asti per prendere la carne presso la locale cooperativa, beh, lì ne guadagna il gusto e la tasca non soffre più di tanto, visto che saltiamo almeno 2/3 passaggi…
Come si vede mi so organizzare…oltre ad essere informato…e consumatore di scarpe…
Scritto da massimo il 23 Lug 2008
Io ritengo che fare appassionata informazione enogastronomica, sia molto impegnativo e tutt’altro che rilassante! Nell’immaginario collettivo si realizza che il giornalista di questo settore sia particolarmente dedito a recensioni di locali et similia. Anche, ma non solo. Un settore vasto, costituito da tantissime particolarità e peculiarità. Non esiste posto per l’improvvisazione. Mi trovo d’accordo con chi diceva che forse la categoria difetta di indagini volte alla sicurezza food&beverage e agroalimentare. Devo anche dire però che in ASA, ad esempio, la comunicazione relativa all’agroalimentare è non solo prioritaria e aggiornata, ma di qualità. L’alimentazione è tenore di vita come si potrebbe mai pensare che giornalisti e operatori della comunicazione di settore siano soltanto presi da assaggi e degustazioni?
Scritto da Stefano Buso il 23 Lug 2008