Il Paese dei Papi e delle letteronze, dove il Pil crolla
7 Maggio 2009di Eugenio Manca per www.ilsalvagente.it
Come va classificata questa storia delle “veline” in politica, vere o presunte candidate del Pdl alle prossime europee: indecorosa, surreale, fuorviante, ridicola? Come vanno definiti gli assalti all’arma bianca mossi dagli amici del premier ai danni della moglie del premier, la quale aveva osato bollare quelle candidature come “ciarpame senza pudore“?
E come valutare la presa di distanza alquanto disgustata della Fondazione presieduta da Gianfranco Fini che sibila: “Il velinismo rilancia uno stereotipo femminile mortificante”? Noi francamente non sapremmo scegliere l’aggettivo giusto, abituati come siamo a una dimensione per dir così “tradizionale” e perfino austera della politica.
POLEMICA. La parola che ci verrebbe spontanea è “vomitevole”, ma appare poco fine e fors’anche inadeguata, sicché decidano i lettori. Sta di fatto che la polemica divampa furiosa nei cenacoli e nei salotti, i giornali hanno riempito pagine di foto più o meno osé, il gossip ha conquistato scena e retroscena contendendo lo spazio a fatti come il terremoto, la crisi economica, l’infezione suina.
E infatti: il décolleté della signorina Sgarbossa, ex Miss Veneto, ha cercato di nascondere le crepe del Duomo aquilano; l’eleganza dello squadrista in cachemire che dirige “Libero”, mostrando in prima pagina antiche nudità di “Veronica velina ingrata”, ha fatto prevalere il 30 aprile sul Primo Maggio; il gesto di un invasato (che per vendicare la figlia spogliata della candidatura ha tentato di darsi fuoco sotto le finestre di Palazzo Grazioli, residenza romana di Berlusconi) ha finito per spingere più lontano i dati dell’inflazione crescente, dell’occupazione calante, degli incidenti sul lavoro incollati a quote inaccettabili.
Gran Dio, a quale grado di miseria politica un paese che si reputava maturo e sofisticato è stato ridotto da qualche lustro di etica ed estetica berlusconiana: ci appassionavamo alle intuizioni strategiche di Moro, alle premonizioni di La Malfa, alle spigolosità di Pertini, ai sogni europeisti di Altiero Spinelli, agli azzardi politico-finanziari di Craxi. Siamo giunti a occuparci delle recriminazioni di subrettine,”letteronze”, “meteorine”, vallette assiepate alla corte d’un attempato e facoltoso sciupafemmine soprannominato “Papi”…
DIVORZIO. Che Veronica Lario abbia della politica un’idea più sobria e dignitosa del consorte, è cosa che già si sapeva e più volte in passato si è manifestata. Lei inoltre non gli perdona una condotta privata diremmo “disinvolta”. Faccenda privata fra moglie e marito dove è bene “non mettere il dito”? A occhio parrebbe di no, data la natura della contesa e visto che ci scappa pure un divorzio. Ma questo è un aspetto marginale.
Ciò che invece lascia trasecolati è il clima, il metodo con cui a quelle latitudini politiche (solo a quelle?) si giunge alla scelta e alla designazione dei candidati a cariche pubbliche importanti. Lo hanno spiegato le stesse interessate, quale con dispetto qual altra fra i singhiozzi: una telefonata nella notte, una proposta inattesa e conturbante, un breve corso intensivo di politica a via dell’Umiltà, una puntatina dal notaio per la firma, una pacca forse sulle spalle, ed ecco – complimenti! – è nata una star del Parlamento europeo. Polvere di stelle.
Fino a ieri? Una era valletta televisiva, l’altra aspirante attrice, l’altra concorrente al Grande Fratello, poi un’animatrice di feste nella villa sarda del sultano, una comparsa nelle fiction di Mediaset, qualcuna financo con esperienza di assistente al soglio di qualche senatore azzurro, tutte in attesa di tempi migliori. Si cerca di sbarcare il lunario, si capisce, ciascuno fa ciò che può, e poi dove sta scritto che per fare il deputato o il ministro non bastino i numeri di una starlet?
CAPPIO. Del resto gli esempi di quello che mangiava mortadella in aula alla faccia di Prodi, o di quell’altro che agitava il cappio fra i banchi, o di quell’altro ancora che insolentiva la vegliarda senatrice a vita mentre andava a votare sorretta da una più giovane collega, ebbene quale senso di inadeguatezza potrebbero mai indurre in chi si è esercitato non nella pratica dell’insulto ma forse in quella del sorriso sotto i riflettori?
Questa – si ripete da un quindicennio ormai – è la società dello spettacolo, dove non conta ciò che pensi, ciò che fai, ciò che sei: conta invece l’immagine che sai offrire di te, come appari, come ti vesti, come ti pettini, il profumo che metti. L’abbiamo pure sentito: basta malvestiti e maleodoranti in Parlamento! Ora, se anche la politica non è altro che uno show, ibrida performance che richiede doti mimetiche e interpretative, non difficile e ben pagata, e allora chi meglio di una che abbia già calpestato le tavole del palcoscenico, sappia sorridere accattivante, lanci sguardi concupiscenti, e magari canti, balli, racconti barzellette, insomma una che balzi fuori dal camerino e sappia bucare il video? Ha già funzionato, no? Loro facciano audience che a governare ci pensa “Papi”…
Canzone del danno
e della beffa
(…) Anche altrove, lo so,
si santifica il crimine, anche altrove
si celebrano i riti
del privilegio e dell’impunità
trasformati in dottrina dello stato.
Ma solo a noi, già fradici
di antiche colpe e remissioni,
a noi prima untori e poi vittime
della peste del secolo
è toccata, con il danno, la beffa,
una farsa in aggiunta alla sventura. Giovanni Raboni, in ULTIMI VERSI,
Garzanti, 2006
(nella foto sotto: Chiara Sgarbossa)