IL PIL, QUESTO SCONOSCIUTO
17 Maggio 2016di Gianluigi De Marchi
Tutti ne sentono parlare, pochi lo conoscono, nessuno sa come si calcola.
Parliamo del PIL, questa sigla assurta a bussola di economia, finanza, politica, intorno alla quale si discute, si formulano strategie, si determinano le sorti di un paese.
Ricordiamo che il PIL (Prodotto Interno Lordo) è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti in un paese in un dato periodo di tempo.
Chiariamo i vari termini.
I beni e i servizi che entrano nel PIL sono valutati al valore di mercato, cioè ai prezzi a cui sono venduti.
I prodotti considerati sono quelli finali, cioè quelli venduti e consumati. Se una lamiera d’acciaio è utilizzata per fabbricare un’auto, non viene conteggiato il suo valore ma quello dell’auto.
E valgono solo i beni prodotti, non quelli venduti (ad esempio valgono le auto nuove di fabbrica, non quelle usate).
Detto così, sembra facile; e sui libri di economia è scritto così.
Ma dal dire al fare, come insegna un vecchio proverbio, c’è di mezzo il mare.
Tra la formulazione teorica del PIL e la sua misurazione pratica c’è l’ostacolo di come calcolare, di cosa calcolare, di dove reperire i dati.
L’immane compito è stato affidato ad un ente pubblico, l’ISTAT, delegato a tutte le rilevazioni statistiche nazionali, tanto che sulla facciata della sede dell’Istat si legge la scritta: “numerus rerum omnium nodus”, ovvero i numeri sono il fulcro di ogni cosa.
Per la produzione industriale o agricola, in teoria nessun problema: si prende il fatturato di tutte le aziende, si sottraggono i costi di approvvigionamento delle materie prime ed il valore è pronto.
Ma è evidente che, per quanto la metodologia sia “rigorosa” (ed infatti è sottoposta a precise procedure, omogeneizzate a livello europeo, per facilitare i confronti) è pur sempre frutto in gran parte di stime o, come dicono i suoi detrattori, di calcoli “ad occhio”.
Facciamoci qualche domanda: come si fa a determinare con esattezza il valore della produzione di centinaia di migliaia di unità produttive e come si fa ad essere certi della “depurazione” dei vari passaggi da un’azienda ad un’altra? Pur con tutta la raffinatezza statistica e la potenza dei sistemi informatici, è impossibile considerare quanto viene prodotto in un mese in Italia
E ancora: siccome da un anno nel calcolo del PIL sono stati inseriti anche stime del fatturato prodotto da traffico di sostanze stupefacenti, prostituzione e contrabbando (sulla base di una decisione delle autorità internazionali che regolano le statistiche), il dato diventa ancor più impalpabile e difficilmente quantificabile. Quanto produce veramente la cosiddetta “economia sommersa” che, per sua natura, non emette fatture e non contabilizza nulla? Al momento del suo inserimento ufficiale nel PIL, il sommerso è stato stimato pari ad un valore di 187 miliardi (11% circa del valore “ufficiale”), mentre droga, prostituzione e contrabbando varrebbero circa 15,5 miliardi di euro
Ma vi sono altri problemi.
Una parte consistente del PIL è dato dalla Pubblica amministrazione, per la quale, in via semplificata, si considera “reddito prodotto” la somma degli stipendi pagati. Quindi se, per assurdo (ma non tanto, data la massa enorme di dipendenti pubblici…), tutti gli italiani fossero assunti dallo Stato per timbrare pratiche, passare carte, rilasciare carte d’identità, ecc. il PIL crescerebbe ad ogni rinnovo contrattuale; ma, ovviamente, senza produrre nulla!
Insomma, quando si legge che “il PIL è cresciuto dell’1,5%” oppure che “à cresciuto del 2,5%” bisogna fare un atto di fede.
E che il PIL sia un’entità “manovrabile” lo ha dimostrato clamorosamente un fatto avvenuto una trentina d’anni fa.
Era allora presidente del consiglio Bettino Craxi, che un giorno pensò bene di sollecitare una revisione dei meccanismi di calcolo del prodotto interno lordo. Risultato della “pressione”: l’Istat effettuò una rivalutazione del 17% che valse al nostro Paese la possibilità di «sorpassare» l’economia inglese.
E per finire parliamo dell’effettiva importanza del PIL per quantificare la capacità produttiva di un Paese e, indirettamente, il suo benessere. Su questo tema è d’obbligo citare Robert Kennedy, che in un celebre discorso alla Kansas University nel lontano 1968 affermò che “ Non possiamo misurare i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro istruzione e della gioia dei loro momenti di svago. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.
E’ per questo che negli ultimi tempi si sono sviluppati altri indicatori, come il GPI (Genuine Progress Indicator, o “indicatore del progresso reale”) che misura la qualità della vita, oppure il FIL (Felicità nazionale lorda).
Quest’ultimo indice è interessante perché non è solo teorico, ma pratico, in quanto adottato dal Bhutan (un regno minuscolo sulle pendici dell’Himalaya, grande come la Svizzera ed abitato da una popolazione pari a quella di Bologna), che ha da anni ripudiato il PIL. Il nuovo indice si calcola attraverso 33 indicatori che hanno lo scopo di indagare la felicità individuale in 9 aree, (lo standard di vita, la salute e l’educazione, l’uso del tempo, eccetera).
Gli abitanti del Bhutan forse non sono ricchi, ma sicuramente sono felici; e se anche noi provassimo a calcolare il FIL ed a smettere di correre dietro ai profitti, ai mercati finanziari, alla voracità di denaro per soddisfare bisogni inutili?