Il sesso dell’angelo – Intervista a Giò Staiano di F.D. Caridi per il Borghese, 6 marzo 1983
4 Agosto 2011È morta a Lecce quasi ottantenne Giò Staiano, nipote del gerarca fascista Achille Starace. Fu scrittrice, pittrice e attrice. Per la sua psiche femminile in un corpo maschile, a cinquantadue anni decise di operarsi a Casablanca per avere tutte le sembianze di donna. Frequentatrice degli ambienti mondani ed artistici della Capitale, ne illustrò i vizi e le abitudini con articoli e libri che fecero scandalo tra i benpensanti. Amica di nobili, di cineasti, di religiosi e di politici, confidente di direttori di giornali, si ritagliò uno spazio nella storia del costume italiano con la sua eccentricità accompagnata da qualità culturali, dalla eleganza e dalla ironia. Antesignana della libertà sessuale, ma politicamente solidale con la Destra cattolica e conservatrice, fu scelta da Fellini per la parte del biondino omosessuale nel film La Dolce Vita. Proverbiale la sua risposta ad un interlocutore che le chiedeva come avrebbe reagito suo nonno materno Starace esaltatore della maschia gioventù italica se avesse potuto vedere la sua degenerazione: «Avrebbe detto che dopo tanta virilità in famiglia, un po’ di relax ci vuole». Oramai vecchia, cercò di chiudersi in un convento pugliese: le suore l’accettarono, il vescovo no. Giò Staiano si rifiutò sempre di essere definita un omosessuale: «Sono una donna fisicamente sbagliata», disse al giornalista Francesco D. Caridi che fu il primo ad intervistarla dopo il cambio chirurgico di sesso. Riproduciamo la sua intervista pubblicata nel marzo del 1983 dal settimanale «il Borghese» (alle cui cronache di costume Giò Staiano aveva segretamente collaborato con lo pseudonimo di «Pantera Rosa», riportando strepitosi pettegolezzi su esponenti dell’alta società).
Il sesso dell’angelo
© Francesco D. Caridi, 1983
Non mi trovo a Lipsia, nella taverna di Auerbach, per stringere un patto col Diavolo. Invece, sono nella Città santa, ospite in un’angusta garçonnière. Ma quando Giò Staiano, irripetibile monumento d’epoca che fa gli onori di stanza, ringiovanito/a da un perfetto lifting e da sapienti cure, scioglie con disinvoltura la veste rosa haute couture, che morbidamente avvolge la sua aitante figura dotata di sode e floride coppe al silicone, e fa scendere con grazia e perizia le sottili mutandine beige (dello stesso colore del reggiseno) per mostrarmi la seducente trasformazione compiuta dai chirurghi di Casablanca, il suo invito all’osservazione dei nuovi fregi carnosi risuona (Goethe e Staiano mi perdonino) come quello che Mefistofele rivolse al dottor Faust: «Gib nur erst acht, die Bestialität wird sich gar herrlich offenbaren».
Il risultato esteriore è ottimo. Giò Staiano mi si manifesta in tutto il suo femmineo splendore. Luciano Cirri, suo vecchio amico, può tranquillamente accettare di rivederlo/a, non ne subirà alcun trauma, come teme.
«Mica ho speso invano i miei soldi», dice Giò mentre si riveste. A cinquant’anni suonati, il famoso personaggio della felliniana Dolce vita, il fortunato autore di Roma capovolta (un libro che suscitò enorme scandalo nella società italiana degli anni cinquanta-sessanta), l’apprezzato pittore di Via Margutta, si presenta come un gran bella signora di trentacinque anni. Potesse vederlo/a suo padre…
«Mio padre non ha mai accettato questa mia tendenza, l’ha sempre duramente osteggiata, mi ha imbottito a forza di ormoni maschili, addirittura voleva rinchiudermi in manicomio». Giò, con i suoi comportamenti femminei esternati nella puritana provincia leccese, aveva sconvolto la sua famiglia, di sana estrazione fascista. Suo nonno materno era Achille Starace: «Poverino, è morto in miseria; se non l’ammazzavano i partigiani a Piazzale Loreto, moriva di fame qualche giorno dopo».
Il padre di Giò, un proprietario terriero, tenta tutte le strade per riportarlo/a alla normalità. Inutilmente. «Mi condusse a Roma, da Ciarletti, per farmi fare l’elettrochoc. Ma Ciarletti gli dice: ‘No, guardi che suo figlio non è matto, è solamente omosessuale; è una tendenza naturale che noi psicanalisti accettiamo’».
Giò è ormai ventenne. Sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle non gli/le creano problemi, al contrario del padre. «Tenevo un comportamento femminile. Mi innamoravo di un uomo e lo confessavo con gioia ai miei. Se poi l’amato mi piantava, prendevo i barbiturici. Quante lavande gastriche… »
Dopo il Liceo classico, Giò inizia gli studi di Lettere e Filosofia nell’Ateneo romano. Ma ben presto li abbandona per dedicarsi ai pennelli. Fa le prime mostre a Via Margutta. Lavora nel cinema. Scrive nel ’59 il libro Roma capovolta e subito balza agli onori della cronaca. Comincia l’attività giornalistica. Diviene il simbolo dell’omosessualità italica.
«E invece no, non ero un omosessuale, ero una donna fisicamente sbagliata. Ha sbagliato i calcoli la natura. C’era un conflitto fra la psiche femminile e il fisico mascolino. Io ero convinta di essere una donna e mi comportavo di conseguenza. La gente mi vedeva come un uomo e da qui veniva tutto lo scandalo, la mia infelicità, l’incomprensione dei miei partners».
Vive la stagione dei grandi amori, molti e sofferti. «Nessuno famoso, però. Non cercavo uomini famosi. Il mio primo amore romano fu un rappresentante di vernici, quello che di più banale ci possa essere, ma era un bell’uomo. Gli uomini che venivano con me, mi accettavano come donna per il periodo in cui magari non avevano un’altra donna ‘vera’, oppure in un momento di emergenza. È chiaro che, quando spuntava la donna ‘vera’, prima o poi venivo messa alla porta. Da parte mia c’era amore, da parte loro solamente simpatia, curiosità, momentaneo tornaconto. Fra omosessuali ci può esser amore, ma non fra un eterosessuale e una persona ‘strana’, come io ero e sono».
La high society lo/a accetta nei suoi ambienti. Giò è brillante, «fa salotto», «dà tono all’ambiente», «fa chic tenerlo/a in casa», è un personaggio da invitare in tutte le occasioni mondane. «Io ho giocato molto su questi fattori per impormi e quindi sopravvivere in un’epoca in cui altrimenti non avrei potuto nemmeno mettere il naso fuori di casa». Erano i tempi in cui facevano la contravvenzione a chi andava con gli slip in spiaggia.
Ricordi. Rimpianti. «Vedo il mondo come se fosse un altro pianeta, mi sento estranea. L’altra sera sono andata all’’Easy Going’, in discoteca, mi sembrava di essere andata su Marte. I comportamenti sono diversissimi da quelli che erano abituali ai miei tempi, quando eravamo di moda io, la Novella Parigini, l’Ursula Andress, i principi Ruspoli, Orsini, Borghese… Un mondo che non c’è più. Oggi siamo tutti uguali, emergere dalla massa è difficile».
Una storia di conquiste faticose, quella di Giò. «Non ho mai avuto protettori alle spalle, ho sempre pagato con la mia pelle. Con la politica ho evitato ogni rapporto. Le Sinistre, che si fregiavano di essere all’avanguardia, spalleggiavano Pasolini e Visconti, ma non me, che avevo l’etichetta di nipote di Storace. Le Destre, dal canto loro, si vergognavano di avere un epigono così fuorviato. Ho dovuto contare esclusivamente sulle mie forze, sulla mia capacità di crearmi simpatie. Non era facile. Nel mondo del cinema, a cominciare dalla Dolce vita di Fellini, portavo avanti il personaggio dell’omosessuale, così come era visto dal cliché dell’epoca».
Ora Giò Staiano, dopo aver comunicato la notizia del suo cambiamento fisico ai giornali, sta preparando il suo rilancio mondano. «Darò molto risalto all’apparizione ufficiale. Sia ben chiaro: non ho alcuna intenzione di fare la donnetta casalinga».
Non cambierà nome. «Mi sentirei ridicola nel chiamarmi Annamaria o altro. Avrebbero dovuto prevedere un terzo sesso per l’anagrafe, siamo donne fino a un certo punto, non abbiamo mica l’utero».
Sta meditando di scrivere un libro sulla sua vicenda. «Racconterò anche come si comportano gli uomini con i ‘diversi’. Si sentono più sicuri che con una donna. Infatti l’uomo di cui sono innamorata, mi ha conosciuta prima della trasformazione, non mi accetta come donna. Mi dice: ‘Per me rimani un frocio’. Il nostro legame continua, ma faticosamente. Dopo Casablanca, è un po’ mortificante per me accettare il trattamento di prima. È assurdo. E poi, non mi può presentare come un amico, con due zinne così. A cinquant’anni, è come se fossi neonata. Non ho menopausa, chiaramente neanche andropausa, mi trovo in uno stato di beatitudine. A un certo punto il pisellino era diventato un organo inutile. Il mio problema era quello di nasconderlo, di annullarlo, per evitare che desse fastidio agli uomini che amavo. Non vivo la trasformazione come un’amputazione, bensì come una liberazione. Provo sentimenti materni per un uomo, non per un bambino. Verso un uomo provo due sensazioni: mi sento a lui sottomessa, e sua protettrice. Madre e amante. Verso i bambini, assoluta indifferenza. E poi, non li posso nemmeno fare. Non mi sposerò. Giò Staiano non avrà eredi, il mondo finisce con me. I miei nipotini sono felicissimi di chiamarmi zia, hanno capito. I miei familiari trovano più logica questa condizione. Mia madre mi considera ormai come una figlia».
Al pensiero della mamma, lo sguardo di Giò diventa più tenero, la voce più morbida. Il suo «pomo d’Adamo», superstite dopo Casablanca, gli sussulta in gola, di commozione.
© Francesco D. Caridi «il Borghese» 6 marzo 1983