NONSOLOSOLDI. Riflessioni sulla crisi: l’economia reale e l’economia di carta. E non finisce qui…
7 Ottobre 2008di Gianluigi De Marchi per www.dituttounblog.com
C’è un aspetto legato alla crisi dei mercati finanziari e delle borse che nessuno ha ancora sufficientemente messo in evidenza: l’assoluta inconsistenza reale dei titoli quotati.
Quasi la totalità di quello che oggi figura presente alla Borsa italiana è carta pura che poggia su altra carta che poggia su altra ancora, e solo un’infima minoranza rappresenta aziende che producono, danno lavoro, creano ricchezza. Diamo un’occhiata al materiale presente nei vari comparti della Borsa.
La sezione principale, dal punto di vista razionale, è quella delle società, che rappresentano l’economia pulsante: ogni azione è una quota di capitale, una fetta di patrimonio esistente (macchinari, stabilimenti, prodotti, ecc.).
Sono 241 le società quotate, un numero non elevato a livello mondiale (a Londra, Parigi o Madrid sono 5 o 10 volte di più) ma comunque significativo del nostro paese.
Ma guardando bene la composizione del listino, si scopre con sorpresa che solo 109 società appartengono al settore manifatturiero (quello che produce), mentre la maggioranza (132) rientra nell’ampio settore dei servizi primari o secondari. Il bello (anzi, il brutto…) è che la capitalizzazione complessiva di chi produce è di soli 144 miliardi di euro, mentre quella di chi lavora intorno a chi produce è di ben 570 miliardi di lire. Morale: il 45% delle società quotate, quelle che “fanno” rappresenta solo il 20% della capitalizzazione totale; e già questo fa riflettere, poiché appare evidente che in un teorico PIL nazionale misurato dalla borsa solo un quinto è dato da beni e ben quattro quinti è dato da servizi (banche, assicurazioni, televisioni, ecc.).
Ma non finisce qui…
Ci sono 268 ETF quotati (più delle società…) che sono un investimento di “secondo livello” perché rappresentano un patrimonio composto da società facenti parte di un certo indice. Pezzi di carta che vivono su pezzi di carta.
Ma non finisce qui…
Ci sono 1.580 Certificates, quegli strani titoli a durata prefissata che rappresentano scommesse su un certo titolo quotato; di questi 201 sono legati ad aziende manifatturiere, 316 (l’80%) ad aziende di servizi. Pezzi di carta che vivono su pezzi di carta.
Ma non finisce qui…
Ci sono la bellezza di 2.224 covered warrant, quei titoli della “finanza creativa” che consentono di scommettere su un titolo quotato, sia al rialzo che al ribasso. Ed anch’essi sono legati in prevalenza al settore dei servizi, e ben 1.048 sono legati ad azioni quotate in mercati stranieri. Pezzi di carta che vivono su pezzi di carta.
Facciamo due conti: 109 società manifatturiere reggono sulle loro spalle qualcosa come 4.205 pezzi di carta, cioè ognuna ne genera almeno 40! Un effetto leva da brivido.
Sotto un altro punto di vista (anch’esso da brivido) solo il 2,5% del listino complessivo rappresenta qualcosa di reale, il 97,5% è finanza pura che, come è noto, non produce di per sé nulla per la collettività (ma produce enormi profitti per chi crea i vari certificates e covered warrant).
Vogliamo cominciare a pensare di mettere fine a questa situazione?
Fuori dalla Borsa i prodotti di “finanza pura” (3.804 pezzi di carta) e vediamo se la maggior semplicità di mercato, la maggior trasparenza, la maggior serietà (se compro Fiat o Generali investo in aziende, con un certificate o un covered warrant gioco e basta).
La Borsa ritorni ad essere luogo d’incontro di capitali a sostegno dell’economia reale, lasciamo che i giovanotti con gli occhialini colorati ed il Master sfoghino la loro bravura andando a puntare fiches nel luogo naturale, Saint Vincent o Sanremo, scoprendo finalmente che solo il croupier vince, pelando i poveri diavoli del tavolo verde…
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Dopo il credit crunch legato al brusco sgonfiarsi dela bolla immobiliare, dopo la crisi finanziaria dei mutui subprime ad essa direttamente collegata, assisteremo alla rovinosa deflagrazione di un’alltra bomba ad orologeria, da tempo innescata dai “grandi” banchieri mondiali.
L’hanno scoperta analisti e investigative reporter finanziari e hanno lanciato l’allarme: i debiti accumulati dai consumatori sulle carte di credito non saldate, hanno superato i livelli di guardia. Oggi sono pari a 915 miliardi di dollari, una somma stratosferica, più del doppio dei famigerati mutui subprime, e identico è l’effetto domino che possono attivare: le banche, si è scoperto adesso, usano rivendere interi blocchi anche di questi crediti a finanziarie specializzate, che li impacchettano e li trasformano in titoli che mettono sul mercato.
Il rischio si disperde, si moltiplica, diventa irrintracciabile. Stessa identica procedura insomma dei mutui, ed effetti devastanti a catena che stavolta possono essere ancora peggiori: se i mutui bene o male sono supportati da una garanzia reale (la casa) e spesso sono anche assicurati da qualche agenzia federale, qui sono prestiti secchi e non garantiti in alcun modo. Anzi, per una perversione tutta americana, accade sistematicamente che al momento di aprire una carta di credito, l’unica cosa che ti chiede la banca è: avete una credit history? Il fatto di avere altri debiti in essere, costituisce esso stesso una garanzia.
Sono le cosiddette carte revolving, che si stanno affacciando ora anche in Italia: passato un mese di acquisti senza controlli, la banca manda a casa l’estratto conto per il saldo. Se non si paga, si accede automaticamente ad una sorta di fido, che può essere rinnovato di mese in mese. In America, dove il fenomeno ha assunto le proporzioni che si diceva (che crescono di giorno in giorno con un’accelerazione esponenziale), il più delle volte per pagare il conto delle carte revolving si prendono in prestito altri soldi dalla stessa o più spesso da un’altra banca. In questo caso si usa il meccanismo dell’home equity: dato che il valore della casa in cui si abita (e per la quale si paga già un mutuo, subprime o prime che sia) è aumentato, si chiede un rifinanziamento del mutuo stesso. Con i soldi così ottenuti, si paga il conto della carta revolving. E così via. Perché il giochetto funzionasse ovviamente bisognava che si possedesse una casa, e poi che il valore di questa aumentasse continuamente: ma dato che la situazione come tutti sanno è cambiata (ultimi dati della settimana scorsa: vendite in ribasso del 13% e prezzi del 4,9% su un anno fa), ecco che tutto il diabolico meccanismo si è bloccato. Ora la tensione accumulata potrebbe scoppiare da un momento all’altro nelle mani delle banche. Il numero e l’entità delle delinquency, cioè dei debiti sulle carte non saldati, sta aumentando vertiginosamente, e altrettanto i fallimenti individuali. Gli allarmi si moltiplicano.
Le banche si difendono come possono. Intanto cominciano ad accantonare riserve esplicitamente per questi crediti: l’ha già fatto Citigroup per 2 miliardi di dollari (che si aggiungono a tutte le perdite di questi mesi per le vicende analoghe), per poco meno lo sta per fare la Bank of America, l’ha fatto ovviamente l’American Express che trema perché di carte di credito vive e quindi ha aumentato del 44% le sue riserve per eventuali perdite.
Le banche hanno poi aumentato il tasso su questi che diventano prestiti anomali: come ha reso noto la Federal Reserve, nel 2005 la media era del 12,51% annuo, nel 2006 del 13,21, nel giugno 2007 del 13,46, oggi è schizzata al 1516%. Si parla di medie, ma andando ad analizzare caso per caso si trovano tassi molto superiori (fino ad un incredibile 27% per i ritardati pagamenti più gravi). Altra misura: si sta riducendo il numero dei mesi per i quali è possibile posticipare il saldo. Prima era in media di 1517, ora si è dimezzato e anche meno. Ancora: le offerte di lancio con cui si “vendono” le carte a clienti potenzialmente interessanti erano tipicamente di dodici mesi a zero interessi. Ora se va bene sono di tre mesi all’1,9%, come ha rilevato il sito specializzato cardRat ings.com.
I primi a cadere sono i più deboli. Business Week ha raccolto la settimana scorsa in un servizio di copertina le storie agghiaccianti di chi, essendo troppo povero per potersi permettere un’assicurazione sanitaria e troppo “ricco” per accedere ai programmi di sicurezza sociale, per pagarsi le spese mediche non ha altra via che aprirsi un fido con la carta revolving. Visto che stiamo parlando di 47 milioni di persone, più altri 16 milioni per i quali l’assicurazione non dà una copertura adeguata (con franchigie fino a 10mila dollari), una popolazione pari a quella italiana, le banche e le finanziarie avevano scoperto un’altra via per fare affari d’oro. Così hanno creato altrettante linee di carte revolving espressamente pensate per i debiti sanitari. Hanno nomi confortanti come CareCredit o Help (che però è un acronimo e sta per Hospital Expense Loan Program), ma in realtà sono tagliole micidiali. Si calcola che circa la metà del debito complessivo da carte di credito, i 915 miliardi di cui si parlava all’inizio, sia stato generato in questo modo. Le storie si somigliano tutte: famiglie distrutte, chi si è dovuto vendere la casa e vive in un camper, chi è inseguito da rate di 1520mila dollari che crescono ameboicamente ma intanto è disoccupato. E i tassi applicati arrivano con la massima indifferenza al 1520%. Come in casi analoghi, quello che colpisce è la rapidità con cui questi tassi aumentano, tanto più perché tutta la corsa ai debiti era cominciata pochissimi anni fa, fra il 2001 (anno della crisi post attentato di New York) e il 2004, quando i tassi erano bassissimi e quindi si è stimolato oltre ogni immaginazione l’indebitamento individuale.
Il caso della sanità è il più complesso perché gli ospedali, che conoscono ovviamente la situazione della maggior parte dei loro concittadini, a questo punto hanno quasi tutti adottato la seguente tattica: per chi paga cash senza batter ciglio (sia esso il paziente o l’assicurazione) fanno sconti anche del 2025%. Altrimenti girano senza esitazioni (entro duetre giorni) il loro credito a una finanziaria specializzata, sia essa emanazione di una banca (o anche di una grossa azienda come per esempio la General Electric che ha una branch specializzata) oppure ancora una società nata espressamente per questo business.
In ogni caso, la finanziaria si accolla il credito pagando l’8085% di quanto dovrebbe avere l’ospedale, che ha fretta di liberarsene perché ha urgente bisogno di contanti visti gli alti costi di medici, infermieri, farmaci, e accetta di rimetterci quel 1520%. A quel punto inizia il martellamento nei confronti del malcapitato, sia che questi sia inconsapevole sia che invece abbia aperto volontariamente al momento del ricovero un conto con una delle carte revolving di cui si diceva. I debiti della sanità finiscono nello stesso calderone dei debiti accesi per comprarsi l’auto (curiosamente qui i finanziamenti sono più generosi e i tassi si mantengono sul 78%), lo stereo, il frigorifero, la motofalciatrice. Così, in questo balletto di crediti, miliardi e tassi d’interesse stellari, nascono, proprio come per i mutui subprime, i famosi pacchetti “strutturati” che s’incanalano nei mille rivoli della finanza globale.
Attonite di fronte al dilagare della crisi debitoria, le autorità federali, dal presidente Bush alla Federal Reserve, stanno concordando con le grandi banche le misure d’intervento. Già se ne parlava al momento dei subprime, e se n’è tornato a parlare con maggior urgenza in questi giorni, ma è quasi pronto un primo fondo misto banche amministrazione di almeno 100 miliardi di dollari per tamponare le perdite. Poi le stesse autorità hanno avviato una partita ancora più delicata: l’opera di convincimento (e di aiuto concreto) perché proprio le stesse grandi banche rilevino le finanziarie più azzardose e più esposte. L’ha fatto la settimana scorsa la Hsbc rilevando la Cullinan Finance, che ha 37 miliardi di crediti strutturati a rischio, l’ha fatto la BankAmerica con la vacillante Countrywide per ben 2 miliardi. E sicuramente si andrà avanti per questa strada. A meno che non siano esse stesse, le grandi banche, a fallire.
http://oknotizie.alice.it/go.php?us=48c042b93d7b7837
Scritto da Francesco B il 7 Ott 2008