Silvio al verde
9 Giugno 2009di Giampaolo Pansa per il Riformista
Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. E quasi sempre vincono. È andata così nelle elezioni europee. In Italia i vincitori sono due partiti che della durezza hanno fatto una ragione di vita. La Lega di Umberto Bossi sul versante del centrodestra. E l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro su quello di centrosinistra.
Era un esito che sondaggisti e opinionisti avevano intravisto. Però non nella misura decisa dagli elettori. Da oggi, infatti, la sorte dei due blocchi dipenderà sempre di più dalle ali estreme, entrambe celoduriste. Saranno loro a dettare legge ai partiti più grandi, il Pdl e il Pd. A ricattare i leader usciti ammaccati dalle urne: Silvio Berlusconi e Dario Franceschini. E a tenerli di continuo sulla corda. Avanzando ogni giorno nuove pretese.
Il Cavaliere aveva dato fuori di matto nel diffondere ottimismo a gogò. Nel comizio di Milano si era spinto a un pronostico bombastico. Ricordiamo il suo incauto urlo di vittoria: «Nelle elezioni europee siamo vicini al 45 per cento. Prevedo un risultato strabiliante, che cambierà la geografia politica italiana». È andata nel modo opposto. Il dato del Pdl è modesto, pur non essendo un crollo. E adesso Berlusconi si scopre con il fuoco in casa. Ovvero con una Lega al 10 per cento. Che si avvicina al 20 per cento nel Nord-Est.
A farla corta, Umberto ha fottuto Silvio. Gli ha portato via molti voti. Ha mutato gli astensionisti del Pdl in elettori leghisti. E presto presenterà il conto della propria vittoria. Di quali voci sia fatto lo sappiamo. Prima di tutto, il federalismo realizzato. E poi una politica della sicurezza sempre più decisa. Con una barriera robusta contro l’immigrazione clandestina. Per contenerla, controllarla, ridurla al minimo indispensabile e punirla.
Penso che il successo della Lega sia dovuto soprattutto a quest’ultimo fattore. Lo conferma il dato che viene da una delle roccaforti rosse: Reggio Emilia. Il voto per l’Europa in questa città ha visto la Lega conquistare il 13,21 per cento, un tetto che sembrava da fantapolitica. Per valutarlo bene, dirò che, sempre a Reggio città, il Pdl è soltanto al 21 per cento. Mentre il Pd ha il 43% dei voti, una miseria rispetto alle vecchie percentuali bulgare dei Ds e prima ancora del Pci.
Conosco abbastanza Reggio Emilia per dire che qui la Lega ha stravinto interpretando gli umori di molti reggiani. È facile fare gli schizzinosi per chi abita in posti toccati appena di striscio dall’immigrazione. A Reggio non è così. Di sera, la città sembra abitata soltanto da migranti extracomunitari. Il reggiano che esce di casa non corre pericoli immediati. Però non riconosce più il luogo dove è nato e vissuto. Lo stesso accade di giorno. Basta fare due passi per via Emilia.
Immagino che accada più o meno così in tutti i centri del Nord dove Bossi ha vinto o stravinto. Con un riflesso scontato: a Roma, il grande successo della Lega renderà il governo più rigido sulla sicurezza. In qualche modo, lo estremizzerà. Certo, è un verbo orrendo. Ma spiega bene che a Palazzo Chigi dovranno dare retta più ai falchi che alle colombe. Al punto che vedremo i falchi crescere. Mentre le colombe rischieranno l’estinzione.
Pure nel centrosinistra s’imporrà un estremismo uguale, anche se contrario, a quello leghista. Di Pietro l’abbiamo già visto all’opera da mesi. E sappiamo a memoria il suo vangelo. La democrazia italiana è in pericolo per la deriva autoritaria del berlusconismo. Siamo al regime di Putin. Ci avviciniamo a quello dei colonnelli in Argentina. Presto saremo alla Repubblica di Weimar che partorì Hitler. A Palazzo Chigi siede un magnaccia impegnato a piazzare le veline che parlano troppo. Come dimostra l’ultimo caso, quello di Noemi. Con il Caimano dobbiamo giocare a rugby e non a golf, come faceva Veltroni e adesso Franceschini.
E sarà proprio contro Dario F. che l’estremismo dipietrista sparerà ad alzo zero. Ha già iniziato a farlo a urne appena chiuse. Dopo aver accertato la propria vittoria, Tonino ha subito spiegato due cose. La prima è che l’Italia dei Valori porterà al calor bianco la battaglia contro «un governo fascista, razzista e piduista». La seconda l’ha presentata al Pd sotto forma di un ricatto. «Ora Franceschini deve scegliere fra noi e l’Udc di Casini».
Mezzo mondo sa che Di Pietro disprezza Franceschini. Lo considera un democristiano di pasta frolla. Incapace di fare una vera opposizione al fascismo del Caimano. Un pessimo giocatore di golf, per di più troppo molle per darsi al rugby. È dunque fatale che il secondo fronte del dipietrismo sarà quello contro il Pd. Manderà addosso a Dario i suoi carri armati, primo fra tutti il giudice De Magistris. Con l’obiettivo di radere al suolo quel che rimane dei democratici.
Il giudizio di Di Pietro è che Dario non ha perso quanto doveva. Anche lui si era augurato che il Pd e il suo leader affondassero. Ma non per ricostruire un partito dalle fondamenta, come mi auguravo io. A Tonino del Pd non importa niente. Sa che con i democratici non andrà mai al governo. Del resto a lui che cosa importa del governo? Gli interessa soltanto una cosa: crescere ancora. Per questo ripete: «Siamo il quarto partito italiano». Con l’aria di aggiungere. «Presto saremo il terzo».
Come sarà possibile convivere con due estremismi? Giriamo la domanda ai soloni di Repubblica. Sino a oggi hanno sbagliato tutto. Non sono riusciti a distruggere Berlusconi, come si erano proposti di fare. Hanno soltanto irrobustito la Lega e reso Di Pietro un gigante. Dunque, anche Largo Fochetti ha perso le elezioni. Ve lo diciamo noi. Perché loro non lo ammetteranno mai.